sabato 23 febbraio 2019

Globalizzazione e noosfera



GLOBALIZZAZIONE E NOOSFERA

(Articolo scritto da Svetlana Semënova nel 2005-2006)




La globalizzazione, da intendersi come progressivo ripiegamento del mondo sul sistema unico economico-finanziario-politico-informativo dell’Occidente, sta imprigionando l’esistente nei suoi principi, imperativi e schemi d’azione. Essa si sta impossessando anche delle menti per mezzo di una massiccia produzione di libri, lavori collettivi, conferenze, dibattiti televisivi, materiale propagandistico, dove il discorso verte oramai solo, appunto, sulla globalizzazione, su “globalizzazione e…” (dall’economia e politica nazionali fino alla cultura e allo spettacolo). 
La Russia, paese-continente, mediastino e mediatore di due mondi – Oriente e Occidente – e ancora oggi paese più esteso sulla terra (per quanto recentemente eroso nei suoi confini occidentali e meridionali), ha sempre avuto una coscienza di sé, del suo ruolo e della sua missione in un certo qual senso universale. La Russia quale “Terza Roma”, potenza ortodossa con particolare istinto ad accogliere in sé terre e popoli, è stata indagata e interpretata al più alto livello filosofico-intellettuale: sicché Dostojevskij vedeva nell’unità panslava “solamente l’aggregazione originale” che si sarebbe poi allargata “a tutta l’Europa e al mondo come cristianesimo”, intendendo con ciò, ovviamente, non conquista e dominio planetari, ma affermazione della causa e dell’ideale cristiani. Questo disegno, che investiva tutti gli uomini e ogni singolo individuo, fu rivelato da Nikolaj Fëdorov e da altri pensatori della cristianità operante (V. Solov’ëv, S. Bulgakov, N. Berdjaev e altri) come realizzazione del divino sulla Terra ad opera dell’uomo, volta a neutralizzare le forze naturali ed esiziali del mondo caduco e a trasformare la natura umana imperfetta e mortale in sostanza immortale e divina. L’umanità, attraverso tale opera, diveniva strumento di attuazione della volontà di Dio, agendo per mezzo della Sua grazia. Chiaramente queste enunciazioni dottrinali rimasero allo stadio di progetto non inveratosi, conservato e congelato nel deposito spirituale della nazione. Vero è che esse non ispirarono mai in modo immediato l’autocrazia ortodossa russa, ma finché in seno a questa vi è stato un progetto universale, fosse pure non consapevolizzato fino in fondo, la Russia è stata forte e influente nel mondo, nonostante sia poi inevitabilmente caduta sotto il martello della rivoluzione a causa dell’indeterminatezza di quello stesso progetto e della sua mancata piena, corretta realizzazione.

La seconda esperienza di costruzione di una grande civiltà, presente ancora nella memoria personale di molti, ha avuto sì successo ma, purtroppo, solo per settant’anni, e qui i profondi difetti dell’ideale, nonché gli errori e i crimini commessi in suo nome, sono stati del tutto sufficienti a che essa si concludesse ingloriosamente. Tuttavia va riconosciuto che lo straordinario, seppur temporaneo, slancio sul mondo, contraddistinto peraltro da notevoli successi, posto in essere dall’emanazione concreta di questa esperienza (una superpotenza mondiale con un proprio blocco politico-militare di Stati e un’enorme sfera di influenza in tutti i continenti) fu possibile grazie al fatto che, nonostante tutto, la sua ideologia aveva in sé un certa, sia pur sempre difettosa, universalità, concernente ancora una volta il mondo intero e più precisamente una parte considerevole della sua popolazione lavoratrice, gli strati subalterni e oppressi. Il mio pensiero sta quindi nella convinzione che il nostro Paese possa tuttora ambire a un ruolo mondiale, che esso sia in grado di attirare nuovamente a sé stati e popoli alla sola ricomparsa di un grande, pregnante, vivido e allettante progetto, di una “idea creativa di Russia”, nell’espressione di Ivan Il’in; questo se la Russia saprà avanzare un’alternativa alla fondamentale scelta valoriale che sta alla base della moderna globalizzazione. 
Sembra infatti che la globalizzazione porti in sé il progetto e l’obiettivo di realizzare un mondo unificato. Ma quale mondo? Un mondo che è mercato unico di lavoro, capitali, merci, servizi, istruzione e cultura massificate, dove a vincere sono solo coloro che ottengono il maggior successo, dove trionfa l’egoismo capitalistico-occidentale e corporativo di fronte alla tranquilla accettazione della rovina dei meno fortunati, dei meno capaci, dei meno adeguati o adeguatisi all’ordinamento globalista fatto legge e storicamente determinato? Per di più in tutto questo truciolato, in questo togliere e tagliare via, finiscono interi ceti e categorie (anzitutto quelli tradizionali e rurali), se non persino interi popoli e regioni geografiche. Sulle manifestazioni di questo nuovo razzismo delle civiltà ha già scritto Aleksandr Panarin. L’ideale umanistico del nuovo tempo, nelle correnti dell’Illuminismo e del Modernismo pur con tutti i loro difetti, aveva come orizzonte un’umanità unificata in costante avanzamento verso una condizione di armonia universale. Oggi questo ideale occidentale si è fortemente svilito, anzi, potremmo dire che si è distorto, corrotto e infine è degenerato; è di nuovo spuntato fuori il vecchio odioso darwinismo sociale, sia pur sotto un pesante trucco ingannatore e nelle sembianze del progresso liberale, coi suoi figli eletti, i suoi leader boriosi, i suoi officianti e, dall’altra parte, la sua moltitudine di gregari, di affiliati più o meno convinti e di subalterni, tutti legati alle catene di un’oggettività ritenuta insindacabile, ed infine, distaccati dagli altri, i reietti recalcitranti e pericolosi, meritevoli delle più estreme misure civilizzatrici. Molti parlano della globalizzazione come di un processo spontaneo (leggasi incontrovertibile) di rimozione delle barriere nazionali e dei confini esistenti a favore di un’unificazione delle economie in un unico sistema globale di capitali, tecnologie, informazione. Rimangono in ombra invece altri fenomeni, del tutto indotti e palesemente diretti: i processi di corruzione e sottomissione delle élite governative nazionali, lo sviluppo di tecniche sofisticate di manipolazione delle masse (ossia degli elettorati), la coartazione di determinati stati e popoli a essere garanzia di ricchezza e benessere per altri che dominano la globalizzazione. 
Di nuovo emerge la matrice religiosa, lo schema protestante calvinista per il quale, come più volte si è rilevato, il capitalismo occidentale ha potuto in un certo momento affermarsi con successo: si sta parlando della presunta predestinazione originaria e inappellabile di taluni individui alla salvezza e di altri alla rovina, predestinazione in virtù della quale ci si può serenamente infischiare delle sofferenze di tutti gli individui deboli, sfortunati e in difficoltà, da respingere e schiacciare nella via verso il proprio successo economico-esistenziale e il “meritato” paradiso. Ed ora, nel profondo della sua anima (senza che la si nomini pubblicamente, ovviamente), l’Occidente stesso si ritiene a buon titolo votato alla propria salvezza, così come, in una qualche misura, coloro che gli rimarranno fedeli, o per meglio dire, che lo serviranno ciecamente facendone la prosperità attraverso la cessione delle risorse energetiche e naturali, la fornitura di forza lavoro a basso prezzo, la concessione di spazi per le sue necessità geopolitiche e lo smaltimento dei suoi rifiuti pericolosi, nocivi e da riciclo... 

Poniamo la seguente domanda: nel mondo contemporaneo la religione rimane il più alto riferimento ideale e valoriale, cosa che essa è per sua essenza? Sembrerebbe che il mondo contemporaneo si sia formato su una base preminentemente secolare e pluralistica. Come noto, persino nel trattato istitutivo dell’Unione Europea è stato rimosso il lampante punto relativo alle origini cristiane della civiltà occidentale. Eppure sono note a tutti le divinità, o per meglio dire gli idoli, di questa società non a torto chiamata consumistica: l’economia, il denaro, il potere, il successo, il piacere e le comodità, l’individualismo, la libertà, i diritti della persona… Per inciso, tutti noi pare abbiamo a mente l’inscindibile triade libertà-uguaglianza-fraternità da cui ha avuto la sua superba scaturigine l’epoca liberale borghese. Ebbene, oggi è rimasta solo la libertà sotto forma di slogan rumoroso e d’impatto da sbandierare a suffragio dei valori democratico-liberali, investita del diritto sacrale di espandersi in tutto il mondo, e attentare ad essa, come ad una divinità, è considerato sacrilegio e atto di blasfemia: “Ma sei contro la libertà?!”… Tuttavia questa entità sacralizzata ha obliato completamente le altre due scaturite dal medesimo ventre, l’uguaglianza e la fraternità, e così senza di queste essa è vuota e sterile, e si presenta come un simulacro diabolico posto nell’ingannevole scrigno dei gioielli della civiltà occidentale (insieme ai “diritti dell’uomo”, alla libertà di scegliere e così via) dal quale gli ori dei beni materiali promessi cadono spargendosi come foglie appassite. 
Insidiando e demolendo i tradizionali principi morali a vantaggio della globalizzazione, la libertà, nel suo alone sacrale che tutto giustifica, opera senza impedimenti aprendo le chiuse dei più infimi istinti: quelli della sessualità sfrenata, del prevaricamento, della cieca violenza, nel cinismo più egoistico. Qui tocchiamo con mano quel fermaglio uncinato del consumismo al quale rimane impigliato l’uomo del nostro tempo, indotto per di più all’estrema disinibizione del corpo, all’assecondamento dei suoi istinti, al massimo godimento dei sensi e alla sperimentazione emozionale compulsiva, all’ingordigia e alla cupidigia, all’azzardo della lotta spietata con chi sta vicino e chi sta lontano, all’alterazione senza vincoli della propria natura esteriore e interiore, sovente verso forme le più dubbie e oscure. Come non rammentare l’acuta osservazione di Dostojevskij secondo la quale l’Occidente despiritualizzato “produce nell’uomo solamente una molteplicità di sensazioni e… decisamente null’altro”. 
Non senza ragione, già l’avvento del capitalismo fu concepito dai critici più attenti come una specie di seconda compiuta peccaminosità del genere umano. Nel primo peccato originale biblico il Signore, come punizione, privò i nostri progenitori del paradiso, relegandoli a vita mortale terrena e impedendo loro l’accesso all’albero della vita eterna, cosicché non riottenessero “gratuitamente” ciò che avevano per loro colpa perduto. Nel secondo peccato invece, storicamente avvenuto, le persone hanno assecondato la tentazione, rifiutando di seguire l’impegnativa strada dell’espiazione e della trasfigurazione della propria natura mortale e peccaminosa in una superiore e immortale. La seconda compiuta peccaminosità si rinviene nella completa secolarizzazione dell’uomo, nell’asserimento per principio della caducità della vita, nella concezione neopagana del definitivo accomodamento dell’uomo all’interno ed entro i limiti della sua natura mortale, autoreferenzialmente sensoriale, corruttibile. Il feticismo neopagano della produzione materiale, il culto dei simulacri manifatturali ed industriali, si rivolgono sempre alle medesime divinità dell’eros, del commercio, della guerra (i nuovi Venere, Ermes, Marte), vellicano ogni impulso e vizio dell’individuo che, nell’espressione di Fëdorov, “ha eletto a suo ultimo fine la vita per sé stesso, in funzione del solo presente e del suo agio”. 
Ogni principio religioso o pseudo-religioso sta alla base di una fondamentale scelta di civiltà, essendo come un “gene strutturale” che ne predispone l’ordinamento secondo una più o meno stabilita e chiara configurazione. E benché l’odierno neopaganesimo sia una religione di rifiuto di una vera religione (giacché quest’ultima per sua essenza presuppone il superamento della presente imperfezione dell’uomo e una sua ascesa a un grado superiore dell’essere), nella forma esso non perde il suo carattere di “religione” (da religare– legare), unificante la collettività e le sue parti in un unico corpo, in un unico sistema di valori.

La locomotiva della globalizzazione, a cui ha aperto la strada la sconfitta dell’URSS nella guerra fredda col crollo del sistema socialista pianificato, ha portato in Russia il capitalismo assieme coi suoi obiettivi geopolitici di dominio e coi suoi standard edonistici e consumistici da applicare alla società (e questi, agendo soprattutto dall’esterno, avevano e hanno tuttora la funzione di indebolire e degradare la società, così come la cultura del Paese). In tutto questo occorre vederci chiaro. Da una parte il capitalismo e la società di mercato corrispondono perfettamente all’idea che hanno di sé come il più “naturale” sistema economico, basato sugli istinti primordiali dell’uomo: affermazione del proprio ego, inteso come proprio volere e proprio essere, lotta per il primato dove a vincere è il più forte, aspirazione a perpetuarsi nella prole che deve ereditare i frutti degli sforzi profusi nell’accumulazione di beni e prestigio. In una parola, è l’ordinamento a misura di quell’uomo che sa sfruttare le sue capacità, le sue passioni e i suoi vizi, le sue fobie e le sue compensazioni, e che perciò è flessibile nel suo equilibrio e forte nella sua fragile solidità. 
Dall’altra, invece, i critici e i contestatori del capitalismo vedono in esso tendenze all’alienazione dell’uomo, all’omologazione degli individui, feticismo per le cose materiali e, in ultimo, il trionfo della cultura massificata che induce con facilità al divertimento acefalo, all’agio meramente sensoriale, e al contempo alla corruzione e narcotizzazione della coscienza… Ed entrambi gli aspetti hanno un loro fondamento; l’uno e l’altro coesistono: naturalità istintiva e bestialità regressiva, ma anche regolazione meccanicistica, fine manipolazione delle coscienze, nonché trasmissione abilmente operata nell’individuo di reazioni, preferenze e convinzioni che egli avverte come “spontaneamente” elaborate, a fronte di una alquanto accurata rimozione in lui di pensieri e avvedimenti metafisici e di ogni anelito d’indagine ontologica. Senza che vi sia nemmeno bisogno di curarcene, la spiritualità (quale dono più grande che suffraga l’asserzione biblica della creazione dell’uomo “a immagine e somiglianza di Dio”) non si manifesta minimamente: non ricercata, non richiesta, essa rimane rintanata in un virgulto atrofizzato. Questo è il famigerato primato dello spirito aptero borghese-conformistico, la sterilizzazione delle energie spontanee creative e religioso-trascendenti dell’uomo che tanto già allarmava i primi critici del capitalismo, i romantici d’occidente, gli slavofili russi, Herzen e Dostojevskij… Prego, lottate, fatevi furbi, sviluppate capacità, talenti pratici, agite senza scopo, perdetevi nelle vostre fantasie, nella virtualità, obliatevi dolcemente o, ancor meglio, agguantate la fortuna, non voltatevi verso chi è caduto o chi è rimasto indietro, superate voi stessi, ma solo in funzione di un pragmatico, transitorio successo terreno! 
A proposito, ricordiamo come nelle officine, nella catena di montaggio, bistrattavano e bistrattano tuttora il contadino da poco arrivato col suo modo proprio di avvertire l’universo, col suo modo di lavorare improntato alla naturalità, con la sua morale tradizionale, trasformandolo in un accessorio della macchina, in un lavoratore “normalizzato”, come era uso chiamarlo Gastev, uno dei più radicali ideologi proletari dell’approccio ingegneristico-costruttivista, per il quale l’uomo egemone doveva diventare una “macchina sociale”. Nelle sue teorizzazioni si palesa il legame genetico tra il capitalismo e il suo gemello-nemico, il socialismo proletario, il quale è riuscito a schiaffare le tendenze più miti e ragionevoli del primo, capaci almeno di assecondare le debolezze e le passioni dell’uomo, in un corpo devitalizzato ascetico-totalitario. L’ideologia socialista-proletaria contro nessuno lottò così disperatamente come contro la cristianità, con la sua “originalità”, “autenticità”, con la sua “mistica”, con gli aspetti “migliori” che aveva in comune con l’ideale e la prassi del capitalismo – il sacro diritto alla proprietà, all’iniziativa, la vocazione al lavoro con occhio di riguardo ai suoi risultati… Ma ecco che l’alienazione dell’uomo, la standardizzazione del lavoro e delle coscienze, e in generale gli aspetti retrivi del capitalismo che gli ideologi del comunismo scientifico Marx e Engels avevano così giustamente denunciato, si sono paradossalmente istillati nel tentativo storico di realizzazione di quest’altro ideale. 
La stessa rivoluzione e la conseguente costruzione di una nuova società sono state contraddistinte in Russia dal processo di industrializzazione e urbanizzazione accompagnato da relativo spirito razionalistico e secolarizzante, che operò su una società già tradizionale, basata sul legame con la natura e l’universo, su un secolare modo di vivere contadino, su una morale religiosa, su valori comunitari. Interessante notare come l’esperienza sovietica, con la sua enfasi di riorganizzazione e industrializzazione, col suo americanismo spinto dei piani quinquennali, sia stata uno dei più grandi fattori di propulsione del processo globale di modernizzazione, intesa come occidentalizzazione e secolarizzazione profanatrice dei paesi e delle regioni a struttura religioso-agricola. (In questo senso, non dimentichiamo che in Russia gli schemi del socialismo materialista e del marxismo sono stati presi dall’Occidente, e che il loro trapianto sul terreno psicologico nazionale è avvenuto non senza alterazione degli stessi). Il carattere del tutto sui generis del periodo sovietico come momento d’industrializzazione forzata di un enorme paese religioso e contadino consistette nel metodo: ci si propose non di seguire il lungo percorso fatto dall’Occidente attraverso dinamiche economiche logico-consequenziali, ma di agire d’assalto, in modo radicale, cavalcando la foga ideologica e gli stimoli morali (inculcati) al sacrificio e all’abnegazione, ed in parte ricorrendo al lavoro schiavile di masse di detenuti. Un simile compito “civilizzatore”, da svolgersi in un tempo inusitatamente breve al limite delle capacità, necessitava di un notevole ascetismo, di una riduzione dell’uomo ad animale da lavoro; tutto per la causa, senza risparmiare nulla: salute, vita privata, cura del prossimo. E così, assaltando i fiumi, costruendo dighe e miniere, piegando la resistenza della materia e così via, i costruttori del comunismo pensavano di edificare la cittadella del bene supremo, il baluardo della definitiva felicità, se non quasi il “paradiso in terra” (tutto questo è reso benissimo dalla letteratura dell’epoca). Qui vi era un’euforia fallace allora incompresa, che non durò a lungo. Gli stimoli entusiastico-propagandistici nel complesso funzionarono peggio di quelli comuni normali, esaurendosi più rapidamente. 
Eppure, per quanto paradossale possa sembrare, il periodo sovietico, con tutte le sue ombre e i suoi difetti (terrore, pensiero totalitario, gigantismo delle cifre dove l'individuo concreto spariva, schiavitù nei gulag, eccetera) non dovrebbe essere oggi, invero, così sprezzantemente denigrato dall'attuale sistema liberale. Quel periodo infatti ha catalizzato gli ideali e gli obiettivi di quest'ultimo: l'occidentalizzazione della Russia e il suo deragliamento dai propri binari tradizionali. In verità, l'industrializzazione fece dell'Unione Sovietica anche una superpotenza militare in grado di intimidire l’Occidente con la minaccia di espandere il comunismo in tutto il mondo, cosa che non poteva essere assolutamente permessa. Ciò nonostante, l'attuale assalto occidentale alla Russia viene condotto con metodi già più efficaci e adeguati al nuovo corso cripto-imperialistico della globalizzazione, e proprio per questo più radicali, in grado di cancellare del tutto i successi nazionali ottenuti nei campi dell’industria, della scienza, dell’istruzione... La Russia ha attraversato la dura prova del totalitarismo, ora sta attraversando quella della "libertà", che si sta rivelando ancora più devastante… Basta guardare con attenzione all'isteria critica e apertamente minacciosa che si è ora sollevata in Occidente contro la Russia non appena questa ha cominciato a compiere i primi passi verso una qualche rinascita nazionale. 

I pensatori religiosi russi hanno forse fatto l'analisi più profonda delle cause e della natura della rivoluzione russa: questa è stata "una piccola apocalisse della storia" (Berdjaev) che ha ricordato a tutti quanto ingenue e miopi siano le speranze degli uomini in una stabile armonia piccolo-borghese, in una comoda esistenza sulla terra entro un ordine post-peccaminoso delle cose, con le sue imbattute forze distruttive irrazionali presenti dentro e fuori l'uomo. Essa è stata anche la catastrofe nazionale della Russia, nonché il prezzo da pagare per i peccati e i crimini del precedente regime… Questi pensatori non hanno potuto però non riconoscere il merito al potere bolscevico di aver, nonostante tutto, salvato la statualità della nazione russa. L'iniziale anarchismo rivoluzionario, che portò l'enorme organismo russo al collasso, al decadimento, se non quasi alla morte clinica, tramutò inevitabilmente extrema salute in dispotismo, in potere autoritario e totalitario che paradossalmente divenne la cura, straziante e financo disumana, capace di rivitalizzare le parti disgiuntesi e necrotizzate del corpo socio-economico-statale della nazione, e in seguito scuoterlo, dinamizzarlo e farne, sia pur in modo brutale, un nuovo potente organismo.
Davvero anche adesso, dopo un nuovo sconvolgimento rivoluzionario, dopo una nuova aggressione di virus forse ancora più insidiosi e pericolosi penetrati nella carne e nello spirito del paese opprimendolo e corrompendolo, in una situazione di pronosticabile e non troppo lontana minaccia di scomparire persino dalla mappa del mondo, siamo semplicemente condannati a ripetere la passata esperienza totalitaria (magari funzionante nell'emergenza ma non certo per un lungo periodo e col pegno punitivo della storia da pagare)? Non è possibile tentare, altrimenti, di uscire dal circolo vizioso dell’infelice fatalismo storico della Russia: "andar elemosinando sotto le finestre degli altri", nelle parole di Ivan Il'in, guardando perennemente alle altrui civiltà, ideologie, percorsi di sviluppo, prima di tutto occidentali o americani, come se fossero i più avanzati, oggettivamente incontrastabili, di per sé appetitosi e attraenti ma che al loro approssimarsi e istaurarsi tosano e scorticano i popoli senza remora. Non è nemmeno necessario descrivere con vivacità ciò che per alcuni è un odierno strozzinaggio, per altri una trappola di corruzione a buon mercato, puro egoismo e cinismo, e per pochi un allegro festival di vita elitario: tutto questo è davanti ai nostri occhi, si riversa quotidianamente nelle pagine dei giornali e delle riviste, negli schermi delle televisioni e nelle radio con migliaia di storie e cifre spaventose, sconvolgenti e sfacciate!
È generalmente riconosciuto che l’epoca della società industrial-capitalistica classica stia ormai volgendo al termine, che si stia approssimando la sua fase post-industriale dove la produzione materiale, pur rimanendo il fondamento della prosperità, abbandonerà il suo ruolo centrale. Sto parlando non già del lavoro fisico volto al soddisfacimento dei bisogni primari dell’uomo (cibo, casa, vestiti ecc.), che Lev Tolstoj considerava la base etica della società; ormai esso è stato declassato nel valore ad attività infima e quasi vile, da scaricare, nel mondo globalizzato, prevalentemente sui suoi strati marginali, sugli immigrati, sugli stati del terzo mondo, tra i quali annoverano senz’altro anche noi. La “selezione naturale” del globalismo è pronta ad escludere con leggerezza i popoli, le economie e le culture inadatti o pervicacemente “arretrati”, trasformandoli in materiale etnografico amorfo atto all’adempimento di tutte le funzioni basse, sporche, sgradevoli di cui necessitano i vecchi e i nuovi conglomerati cosmopolitici. Dall’altra parte incoraggia in senso neo-imperialistico la fuga delle migliori menti, portatrici di sapere, capacità e competenze (coltivate grazie alle eccellenze nazionali e ai preesistenti sistemi d’istruzione) da qualche parte nella Silicon Valley, in università o centri di ricerca occidentali.
Qui sorge un interrogativo. Ogni ruolo della Russia e del mondo slavo si è già esaurito? Tutti gli altri paesi slavi, infatti, tranne al momento la Bielorussia, si sono allegramente riversati nell’orbita degli odierni egemoni: gli USA e l’Europa unificata, secolare e materialistica. E tuttavia l’Occidente, che pare essersi così pacificamente e confortevolmente sistemato, con la sua struttura militare si sta pian piano, compattamente e inesorabilmente avvicinando alla Russia, accerchiandola metodicamente. In virtù di quale irrazionale minaccia così profondamente conficcata nella sua coscienza? Sembra che l’Occidente non possa stare tranquillo finché non abbia disintegrato la (ex-) grande Russia in decine di parti, in staterelli deboli, insignificanti e in ultimo fantocci. Da dove viene tale diffidenza, sospettosità, repulsione, latente ostilità, proprie di una bestia di una certa razza di fronte ad una di un’altra? Perché avere paura della Russia? Quando questa ha già spalancato le sua grandi braccia all’Occidente e al suo modo di vivere, per di più con tale eccessività, senza minimamente proteggersi, quando l’hanno messa al tappeto, spogliata dei propri ideali nazionali, quando il suo popolo si sta lasciando corrompere in massa dalla legge della giungla capitalistica, dall’esca scabra del sesso e del piacere a buon mercato, e sempre in massa sta morendo di vodka scadente, droghe, indigenza e malattie, gettando milioni di bambini non utili a nessuno sulla strada, sui marciapiedi, a rimpinzare il crimine… Di cosa si dovrebbe aver timore davanti a un simile corpo pachidermico senza forze e mezzo morente, con un esercito decomposto e missili obsolescenti, come amano dipingere con spregio e gioia maligna l’“impero” sconfitto? Davvero non hanno ancora calpestato e spianato tutto i vari programmi d’indottrinamento sorosiani volti a irrorare valori occidentali; può mai essere che d’un tratto qualcosa spunti fuori, inizi a zampillare e a rinvivire il popolo con acqua vivifica di speranza e ispirazione, e che questo si rialzi e con la propria testa, la sua anima, il suo pensiero tramandatosi nei secoli e la sua volontà si rincammini verso una nuova meta da raggiungere? Già, pare che temano il celato potenziale di un ripresa ideologica e valoriale della Russia, temano la gestazione di qualcosa d’inaspettato nel ventre della “sibillina anima russa”, per quanto adesso ironicamente facciano le smorfie davanti a questo spauracchio che non senza motivo un tempo s’è impresso vividamente nell’immaginario dello straniero. 

Sembra che, stando a una categorizzazione metafisica a grandi linee, esistano due tipi di uomo. Uno è quello interamente calato nella realtà pratico-empirica, pienamente ed esclusivamente assorbito nei bisogni, negli affanni e nei piaceri del mondo terreno, che accetta con acritico fatalismo le leggi naturali di vita e morte. La società dei consumi è sorta sul terreno di un fenomeno che è stato chiamato borghesismo, in un senso ampio che tiene conto non solo dell’ovvia dimensione socio-economica, ma anche di quella psicologica e soprattutto spirituale-metafisica, o, per meglio dire, a-metafisica. Lo spirito della borghesia, della piccola e gretta borghesia, è in breve tempo diventato egemone e si è diffuso in tutti i settori della società giungendo in tal modo al suo trionfo, imponendo erga omnes un determinato stile di vita e tipo di comportamento, affermando i suoi valori, giustificando il suo primato. Esso è meramente terreno, la sua sommità è chiusa senza spiragli verso realtà superiori, senza aneliti di ascesa al cielo. Il piccolo borghese, in questa visione filosofica mutuata da Herzen, si è privato per auto-amputazione della precipua caratteristica metafisica dell’uomo, del suo spirito che è trascendenza e trasfigurazione di sé. Ovunque si insinui lo spirito piccolo-borghese (e con la globalizzazione si insinua dappertutto), esso taglia le ali a ogni spirito autentico, a ogni impulso e a ogni slancio in avanti verso una superiore realtà dell’essere: se prendiamo il solo campo della cultura, vediamo che il concetto e il disegno di trasformazione della vita e dell’uomo sono da questo storpiati e declassati a estetismo, arte fine a sé stessa; ogni inquietudine metafisica e creazione autenticamente nuova diventano invece post-modernismo che si diverte a maneggiare arbitrariamente decostruzioni e simulacri… Il vettore ideologico di questo spirito sta nel dire che tutto è temporaneo e relativo: i grandi concetti edificativi della filosofia sono resi innocui attraverso il loro, per così dire, status “da biblioteca” (quali elementi atti alla pura conoscenza, a una erudizione come si conviene), i precetti e le dottrine religiosi sono rinchiusi nel terreno privato e recintato della fede personale e del diritto a scegliersi la propria salvezza strettamente individuale. Dunque lo spirito piccolo-borghese può albergare sia nel conservatore, sia nel liberale, sia nel rivoluzionario, sia nel nichilista… Esso ha mille volti – sociali, filosofici, “religiosi” – ma dietro a tutti questi sta un unico neopaganesimo, un’unica scelta anti-evolutiva. 
Passiamo ora al secondo tipo di uomo, quello che, sottoposto per necessità alla medesime condizioni di esistenza terrena, si sente in esse significativamente meno a suo agio, più infelice, ne avverte il carattere profondamente tragico e non le accetta come definitive e dovute. Questo uomo vive in uno spazio spiritualmente dinamico e teso da due poli: il qui e ora terreno e il richiamo trascendente a una natura più perfetta, a “un nuovo cielo e una nuova terra”. Solo tale uomo può propriamente essere definito religioso, la cui anima è “cristiana” anche se egli non professa alcuna religione. Al contrario, la professione religiosa dichiarata e la mera solerzia cerimoniale possono essere niente più che un “fiocchetto” tradizionale e devozionale apposto sul vestito di vita dei primi, individui nella sostanza non religiosi.
Così i nostri grandi pensatori, nelle loro meditazioni sul carattere nazionale russo, osservandone le diverse antinomie (anarchismo, sediziosità, anti-borghesismo vs ubbidienza, sopportazione, inerzia conservatrice; aspirazione alla libertà, apoliticità vs senso dello stato, burocratismo; universalismo messianico, spirito di sacrificio vs attaccamento all’esistente, nazionalismo; ricerca di Dio vs ateismo militante; eccetera), riscontravano tutti nell’anima russa un motivo dominante che la lega al secondo tipo umano metafisicamente orientato: la sua aspirazione all’assoluto, ai momenti e ai termini ultimi, al Regno dei Cieli, dove trova incarnazione la speranza di salvezza universale e divinizzazione dell’uomo e del mondo. Lev Karsavin, insieme ad altri pensatori religiosi, ha rimarcato non solo l’assolutezza dell’ideale russo ma anche ciò che vi è di più importante, la consapevolezza che “l'ideale ha valore solo quando lo realizziamo pienamente...”. “O tutto, o niente” – così Evgenij Trubetskoj definiva il dilemma del massimalismo russo, mettendo in guardia contro i suoi pericoli. Una simile coscienza, infatti, è soggetta a fallimenti esiziali e travisamenti di ogni tipo (che si richiamano a vicenda nella stessa storia russa), nonché al tracollo dell’idea di gradualità e consequenzialità storico-culturali, di sviluppo in senso creativo-costitutivo (ottenere tutto e subito senza mediazione, come credevano appassionatamente gli abitanti del villaggio di Platonov). “L’uomo russo non può esistere senza un ideale assoluto, benché spesso accolga con toccante ingenuità come tale qualcosa che non lo è affatto…”, e al naufragare di quel surrogato nel quale il popolo si è sforzato di credere come a un ideale assoluto, egli cade senza resistenze “in un inusitato stato bestiale o in un’indifferenza totale verso tutto” (Kersavin), in una condizione in cui “tutto è permesso”, manifestando un nichilismo che è rovescio della sua profonda apocalitticità.
L’attuale situazione di vacuità ideologica che ha soppiantato il vecchio e decaduto ideale comunista (ideologia parziale e deficitaria secondo la classificazione data da Nikolaj Setnitskij, seguace di Fëdorov) favorisce considerevolmente questa disposizione all’indifferenza e alla disperanza. Per di più, l’ordine ora costituito asseconda l’obiettivo globalista di soffocare l’anima della Russia, ciò che la separa dal mondo occidentale, fino alla completa incomprensione, alla sorda irritazione, alla celata ostilità, fino a rendere la Russia finalmente “normale” (allo scopo del tutto interessato di rimpicciolirla e ridurla a borgo mercantile e paese donatore). 
Occorre spendere alcune parole sul ruolo dell'intellighenzia in questo processo. Già nella famosa triade slavofila – statopopolo ("terra", nell'espressione di Konstantin Aksakov), collettività– quest'ultima (adesso chiamata "società civile") era intesa come mediazione dei primi due elementi, avente funzione di elevare gli interessi, le speranze e i valori del popolo a stadio di autocoscienza capace di vincolare lo stato (l'autorità) a prenderne atto e ad averne considerazione. Ora, secondo questa concezione, il posto della collettività in Russia era occupato principalmente dall'intellighenzia, sebbene non sempre e non interamente questa sia stata portavoce dell'autocoscienza popolare nazionale. Ricordiamo il suo ruolo nella preparazione della catastrofe rivoluzionaria, acutamente denunciato a suo tempo dagli autori dei saggi Vekhi (“Tappe fondamentali”) e Iz glubiny (“Dal profondo”). E nella recente sconfitta storica della Russia nella guerra fredda, nel suo processo di globalizzazione liberal-capitalistica, una parte piuttosto consistente dell'intellighenzia, fattasi consciamente e inconsciamente ideologizzare dai nemici della Russia, è diventata esecutrice volontaria-involontaria del compito di civilizzazione dell’Occidente di cui si è giustappunto parlato, che consiste appunto nell'alterare la composizione organica dell'anima russa e la sua architettura genetico-spirituale. Oggi un ruolo enorme lo giocano il denaro, la posizione sociale, i beni materiali, e per essi ci si comporta secondo il vento che tira e si perdono gli scrupoli. (Ovviamente, ci sono stati e ci sono sempre strati e gruppi sociali fermi nella loro onestà e nelle loro credenze profondamente popolari, ma una intellighenzia di questo tipo sopravvive con massima difficoltà giacché gettata nell'ombra, messa ai margini, da dove i suoi ideologi e pensatori sono tirati fuori ed evocati solamente nell'ambito di studi accademici e nell’ambito di una memoria storica del tutto innocua rispetto alla realtà attuale).
Il determinismo del “così bisogna” sta cercando di soffocare definitivamente il sempre vivo e sonante richiamo metafisico presente nell’anima russa tramite i rumorosi stuzzicamenti della civiltà del piacere e dell’ozio, della cultura di massa edonistica e psichedelica, la quale si è lanciata all’attacco soprattutto delle nuove generazioni: rock, pop-music di bassa lega, sesso, droga, sollecitazione dei sensi con piacevole intorpidimento o completo addormentamento della coscienza, culto della violenza, diritto a uccidere, eccetera. Sembra inoltre che più si accendano le aree del piacere sensoriale e del divertimento acefalo, più la vita, le persone e tutto ciò che sta intorno si raffreddi, che il mondo, la propria dimensione interiore, le relazioni individuali, sociali e pubbliche, la storia, l’essere in generale si irrigidiscano. La parte elitaria della gioventù è educata alla ragione e alla conoscenza pragmatica e mirata, alla morale del successo: la maggior parte punta al prestigio di vivere e operare nel grande settore della non-produzione (servizi, finanza, diritto, amministrazione, commercio, moda, spettacolo, e via dicendo).
Certo, stiamo parlando della tendenza prevalente a cui è connesso tutto quel nuovo che ha fatto sbalorditivamente irruzione nella nostra vita. Qui ritroviamo la potente e cinica tribù dei nuovi signori grandi e piccoli del nostro Paese, conquistatori del patrimonio collettivo, delle risorse naturali, dei portafogli altrui, quelli che hanno messo all'angolo la vecchia élite "intellettuale" sovietica che ora per lo più sciama loro attorno salvaguardandone i lauti guadagni e i centri d'influenza… E con quale movimento browniano e appariscenza estetica s’avvicendano i brillanti attori e pagliacci televisivi, i retori del teatrino politico, le stelle dello show-business, i vip, le pittoresche figure dei tarocchi e delle “scienze” occulte!... Ma questo forse è tutto? A mio modo di vedere, il nucleo sano della nazione è ancora vivo e attivo, sia pur nell'ombra e nel silenzio, lontano dal tramite informativo pubblico: abbiamo lavoratori onesti che hanno mantenuto intatte le qualità popolari dell'anima russa e inalterato il loro rapporto verso il mondo, trasmettendo ciò ai loro figli, e giovani che camminano seguendo i sentieri della religione, per di più in modo attivo, rifuggendo dalla pattumiera della corruzione di massa, e ci sono scienziati che per "amore intellettuale verso Dio", signore della loro adorata disciplina, servono generosamente la scienza della loro nazione; ci sono anche veri artisti, politici e giornalisti, come ci sono instancabili cercatori russi di vie alternative al progresso dell'uomo e del mondo. C'è un'eredità spirituale eccezionale in seno alla cultura russa. C’è, in definitiva, quel pensiero attivamente cristiano ed evolutivo che sovente è raccolto nel concetto di cosmismo russo, il quale può e deve diventare la nostra risposta, russa e al contempo universale, all’ideologia e alla realtà della globalizzazione, fungendo da variante edificativa di un ordinamento dell’esistente planetario e financo cosmico. Benché lo sviluppo classico di questa corrente filosofica e scientifico-naturale si dispieghi lungo un periodo di oltre cento anni (dalla prima metà dell’ottocento fino alla metà del novecento) ormai distante da noi più di mezzo secolo, una sua ampia e adeguata ricezione non ha ancora avuto propriamente inizio, mentre è in atto un ulteriore approfondimento, affinamento e arricchimento di questa eredità con nuovi traguardi scientifici raggiunti e da raggiungere, nonché una sua attualizzazione e una sua progressiva penetrazione (stante la supremazia di tutt’altro tipo di civilizzazione) nelle zone marginali, capillari e meno visibili del corpo culturale.
Il cosmismo russo, in entrambe le sue diramazioni – quella cristiano-operante (Fëdorov, V. Solov’ëv, S. Bulgakov, N. Berdjaev, P. Florenskij, A. Gorskij, N. Setnetskij) e quella natural-scientifico-filosofica (V. Odeovskij, A. Sukhovo-Kobylin, N. Umov, K. Tsiolkovskij, V. Vernadskij, A. Chizhevskij, V. Murav’ëv) – afferma l’idea di evoluzione attiva. Basandosi sul fatto empiricamente comprovato della cefalizzazione, ovvero della crescita continua dell’encefalo, dell’affinamento e del perfezionamento del sistema nervoso nel corso dell’evoluzione che ha portato all’uomo, i cosmisti russi deducono che tale continuità evolutiva, che rimanda a un qualche suo impulso teleologico, non si fermi all’uomo. L’evoluzione (o, se si vuole, il disegno divino sul mondo e sul creato) spinge l’uomo dotato d’intelletto a essere non già attore passivo ma fautore creativo del proprio ulteriore sviluppo, e non solo nella direzione già intrapresa di crescita spirituale in seno alla materia, ma nel senso di un modellamento dello spirito della stessa materia. La fase di evoluzione attiva e cosciente determinata dalle esigenze della ragione (della “ragione credente”, utilizzando l’espressione degli slavofili) che l’ideale della cristianità operante è chiamato a gestire deve portare alla trasfigurazione della natura dell’uomo, ad oggi sostanza ancora mortale, imperfetta, difettosa, e della natura del mondo, che è soggetto a forze distruttive ed entropiche. Questo futuro ordine trasfigurato dell’essere ha assunto diverse denominazioni: in Fëdorov “natura regolata”e “psicocrazia”, in Vernadskij “noosfera”, nei pensatori religiosi “Regno dei Cieli”.

Ma ora torniamo al mondo contemporaneo, pericolosamente lontano purtroppo dalla consapevolezza degli imperativi attivo-evolutivi che gli stanno dinnanzi, egregiamente espressi dal collega francese dei cosmisti russi, lo scienziato e filosofo Teilhard de Chardin: “La vita, raggiunto il suo stadio intellettuale, non può continuare se non elevandosi strutturalmente”, ovvero alla coscienza e alla vita nella forma attuale devono seguire una “supercoscienza” e una “supervita”. E cosa vediamo noi invece? Il mondo globalizzato che si trova di fronte a problemi globali che hanno assunto la forma, come noto, di crisi globali. Cosa significa questo? Significa che i problemi globali – ecologici, demografici, antropologici – si devono risolvere con radicalità in un’altra maniera, se è vero che essi raggiungono livelli di gravità quasi assoluta. Prendiamo qualsiasi lavoro relativo a problemi e crisi globali, a diversi scenari del futuro (dove di regola gli scenari si presentano pessimistici e catastrofici, ma in realtà sono volutamente presentati come tali): colpisce come essi siano affetti da un approccio fondamentalmente inadeguato all’oggetto preso in esame. Innanzi tutto, spesso manca la semplice comprensione del fatto (ribadito nel cosmismo russo) che problemi globali, per loro natura, necessitano di soluzioni veramente globali, che il loro oggetto universale non può che riferirsi a un soggetto altrettanto universale, cioè l’umanità nel suo complesso. Essi toccano in qualche modo proprio le fondamenta naturali-esistenziali della vita dell’uomo: il suo rapporto con la natura (ecologia), con la nascita e la morte (demografia), e infine, cosa più importante, la natura stessa finita, imperfetta e contraddittoria dell’uomo (antropologia); mentre invece l’approccio a questi problemi rimane solamente economico, sociale e geopolitico, totalmente privo di una dimensione ontologico-sostanziale. 
Questa dimensione non è mai stata dimenticata dal cristianesimo che invece punta il dito contro la caducità dell'uomo, la sua condizione mortale, la legge del divorarsi ed eliminarsi a vicenda che domina il mondo e su cui non può essere costruito nulla di solido ed armonico. Fino ad ora – come enunciato chiaramente per la prima volta da Fëdorov e altri pensatori del cosmismo russo – l'umanità non ha mai tenuto conto, nel suo agire sociale, nei suoi piani e dottrine rivoluzionari o riformistici, di questo fondamento ontologicamente cedevole e vacuo, e ancor meno si è mai posta il compito di trasformare tale fondamento. Il paradiso comunista in terra è fallito per via di un’analisi poco profonda, meramente socio-classistica delle cause del male nell’uomo: le storture e le disgrazie terrene venivano completamente separate dalla loro origine più profonda, la morte, ponendosi il fine utopico di “rendere felice il mortale” (Fëdorov). Altra utopia ingannevole è la società liberale del consumo: il consumo ha il suo limite nell’esaurimento delle risorse e la lotta per esse si prefigura spietata, mentre la felice “post-storia” è già naufragata nelle contraddizioni insite alla sua civiltà, nel collasso religioso-valoriale e nel terrore, per non parlare delle minacce nichilistiche che si annidano nella cruda assenza di speranza nella salvezza della natura mortale dell’uomo. 
Ricordiamo anche l'esempio alquanto ironico tratto dalla cosiddetta prima fase della globalizzazione, a cavallo tra diciannovesimo e ventesimo secolo, quando, grazie ai nuovi successi nel campo della tecnica e dei trasporti, prese piede un’accelerata convergenza commerciale e industriale tra stati e regioni che fu percepita da molti come l'inizio di un'era di prosperità e pace globali. Tanto che nel suo libro "La grande illusione" (1909) Norman Angel, uno dei primi apologeti della globalizzazione, sosteneva in modo “convincente" che nella nuova realtà di interconnessione economica globale la guerra stava definitivamente perdendo di senso e stava divenendo ormai impossibile da attuarsi. E questo cinque anni prima che scoppiasse la prima guerra veramente globale della storia, e poco prima dei giganteschi sconvolgimenti rivoluzionari del Novecento, dei fascismi, della Seconda guerra mondiale, delle più inaudite manifestazioni di massa del male!

Psicologi e sociologi contemporanei ritengono che oggi i paesi più benestanti (più di un terzo della popolazione mondiale) stiano ampiamente soffrendo di “nevrosi noogeniche” (nevrosi da mancanza di senso e scopo della vita), di “nichilismo psiconevrotico”, che si manifestano nella narcotizzazione della coscienza sotto forma di oblio dell’insensatezza dell’esistenza e del baratro inevitabile della morte, nell’epidemia dei suicidi, nell’infuriare della distruzione e dell’autodistruzione… L’uomo, avvelenato da tossine mortali, sta covando nel suo seno la fine del mondo. Da nessuna parte emerge così chiaramente ed espressivamente come nelle produzioni letterarie, ideologiche e filosofiche la paura incalzante, incontrastabile e spesso inconscia della morte, il terrore dell’annientamento dell’“io” che talvolta porta alla completa disperazione, la quale pervade ogni cosa immediatamente e uniformemente: sé stessi, gli altri, tutto ciò che vive e, infine, la terra, il cosmo, l’universo intero (ricordiamo almeno la confessione del suicida coerente del “Diario di uno scrittore” di Dostoevskij, o la teoria di Edward Hartmann sull’auspicato futuro suicidio collettivo dell’umanità e con esso l’annientamento di tutto l’universo). Gli psicologi hanno studiato anche il meccanismo di trasmissione della paura della morte – inconscia, semi-conscia e cosciente – da sé stessi agli altri individui. Questo spostamento si avverte particolarmente negli atti di sadismo ma in realtà si manifesta diffusamente nei più disparati eccessi di odio, crudeltà, efferatezza e distruttività che scuotono le relazioni tra individui, gruppi, nazioni. Di tali movimenti e spostamenti ve ne sono sempre stati molti: a una tranquilla morte nel proprio letto si è sempre preferito una morte violenta nell’eccitazione guerresca dell’eros, alla lenta agonia della vita veniva posto fine con la spada del harakiri, col fuoco del kamikaze, mentre oggi ci sono i martiri-kamikaze che in un istante cancellano la vita propria e degli altri. Infine ci sono quelli del “Oh, se insieme a me morisse l’intero universo!”, “Annegare tutto!”, far saltare tutto in aria, portare tutto al collasso, nihil nihil; solo in un simile impulso satanico si leniscono le menti e i cuori più ferocemente disperati, privati di Dio, matafisicamente incattiviti al limite estremo. Queste sono le estreme manifestazioni della crisi antropologica in atto che affonda le sue radici nelle profondità irrazionali della società secolarizzata e presuntivamente costruita secondo “ragione”!

“L’ultimo nemico a essere annientato sarà la morte” (Lettera ai Corinzi, 15:26). E l’opera di questo nemico, la fitta tragica ombra che getta sull’esistenza dell’essere cosciente e percepente, guastandolo coi veleni della miscredenza, della cinica provocazione, del nichilismo del profondo della sua psiche, non può essere diretta che dall’antagonista di Dio, non a torto chiamato “il cercatore della morte”. Oggi la furia del distruggere, del seminare cadaveri, dell’uccidere gli altri e sé stessi ha riempito i libri, i giornali, le riviste e – ciò che particolarmente contagioso in quanto coinvolge la vista, l’udito e la sensibilità di molti – la televisione e il cinema. Prendiamo un solo esempio: il film cult “Kill Bill”: che estetizzazione della violenza, che trasformazione dell’atto omicida in elegante balletto cruento e brutale! Qui è particolarmente evidente il culto della morte proprio dell’odierna cultura di massa e della civiltà consumistica in generale, che davvero si inchina davanti al “cercatore della morte”. 
Ma proprio la cultura russa ha dato alla luce il più radicale combattente contro la morte di tutta la storia mondiale. Il capostipite del pensiero cristiano-operante, autore della “Filosofia dell’opera comune”, Nikolaj Fëdorov, porta questo fine così mancante (sconfiggere la morte) dentro la storia e dentro la vita di tutti gli uomini senza esclusione, vissuti, viventi e che vivranno in futuro: l’annientamento di questo “ultimo nemico”, il superamento dell’attuale natura umana mortale, difettosa, pericolosa per sé e per il mondo, la ricerca di nuove condizioni d’immortalità ontologica che aprano la strada all’eternità del creato cosmico. Il pensatore russo spiega questo fine con il raggiungimento finalmente di una maggiore età (“maturità di Cristo”) da parte del genere umano, il quale è ancora un adolescente impetuoso che si diletta nei suoi giochi non di rado malvagi, disperati e insensatamente deleteri.

Gli ideologi della globalizzazione, con la sua trionfante ipertrofia di interessi e obiettivi economici, illudono circa una nuova fase di sviluppo post-industriale in cui al primo posto dovrebbe esserci la produzione intellettuale: comparsa di nuovi approcci, idee, tecnologie, lo sviluppo dell’informazione, ricerca della qualità di vita. Tuttavia non ci si sposta: questa produzione e questa ricerca rimangono ancorate come prima ai principi del consumismo e dell’utilitarismo, sia pure all’interno di un più ampio assortimento culturale, e ovviamente non sono rivolte a tutti. Per i cosmisti invece questa nuova qualità della vita, assunta a più alto valore in ogni individuo, deve mirare non al transitorio godimento delle piccole cose effimere individuali con il suo inevitabile risvolto negativo, ma al “solido mantenimento dell’esistenza” (Fëdorov), e ciò significa estensione dello spazio di vita personale e, quindi, immortalità. Minare l’odierna, ridottissima e facilmente dissolventesi morale del successo, è possibile solamente proponendo un successo veramente grande, un successo ontologico: la vittoria sull’invecchiamento, sulla morte, e la resurrezione di coloro che sono già morti a nuova vita. 
Il problema ecologico globale del rapporto dell’uomo con la natura è posto dai pensatori della linea attivo-evolutiva, in sostanza, in termini cristiani, cioè come responsabilità della più alta creatura divina dinnanzi alla natura e al creato inferiore, secondo la parola dell’apostolo Paolo “in attesa della rivelazione dei figli di Dio” nella speranza della liberazione “dalla schiavitù della corruzione” (Lettera ai Romani, 8, 19-21), come necessità di una vera realizzazione del precetto biblico sul possesso della terra e il saggio dominio sulle sue creazioni. Tale possesso e dominio sono rivolti sia alle forze distruttive della natura, che sconvolgono il genere umano con terremoti, inondazioni, tsunami, siccità, ecc., sia alle conseguenze esiziali dell’attività dissennata, scriteriata e accaparratrice dell’uomo (depauperamento della Terra, effetto serra, radiazioni, ecc.). Sia la morte che le forze della natura toccano catastroficamente ogni individuo, e la lotta contro di esse, il loro imbrigliamento, può e deve essere un compito planetario che non divida ma unisca l’umanità in una causa comune. Nel cosmismo russo sono stati pensati in forma di progetto percorsi e modi concreti di regolazione della natura, inclusi l’utilizzo pacifico di corpi militari e la trasformazione di strumenti di sterminio in strumenti di salvezza (come esempio di efficacia profetica di tale progetto si possono addurre i moderni sviluppi nell’utilizzo di un particolare tipo di scudo spaziale atomico come difesa da una inauspicata penetrazione di corpi celesti capace di costituire una minaccia apocalittica per la vita sulla terra).
Il vizio profondo della fondamentale scelta globalista emerge in modo particolarmente vistoso nel problema della demografia: qui nasce la teoria radicale del “miliardo d’oro” che risolve in modo cannibalesco il problema della limitatezza delle risorse terrestri, giustificando la cruda e mirata selezione planetaria in atto (l’Africa deve essere sferzata da AIDS e genocidi tribali, la Russia ridotta a 30-40 milioni di abitanti con l’indice demografico già in caduta libera, e così via). È una condizione estrema, sì, ma é proprio ciò che contraddistingue questa teoria! Come contraddistingue i pensatori russi del cosmismo l’estremo ottimistico opposto. Ad esempio, Tsiolkovskij sosteneva che per la realizzazione degli enormi compiti di trasformazione della Terra (per non parlare dello spazio), per la valorizzazione degli ambienti desertici, montuosi, oceanici e atmosferici, l’uomo deve moltiplicarsi di oltre mille volte fino a raggiungere i seimila miliardi. Mentre le prospettive dell’opera comune di Fëdorov racchiudono in sé non solo l’aumento della popolazione e, di conseguenza, la moltiplicazione delle possibilità di regolare le forze e le energie della natura per mezzo della totalità umana (“introdurre in essa la volontà e l’intelletto”), ma anche il ritorno in vita dei morti nell’immenso creato cosmico. Il cosmismo russo rimuove il pessimismo globale che sta alla base della filosofia della contrazione del genere umano, dell’edonismo degli eletti (difendere e accrescere il proprio standard e comfort di vita – guadagnare, divertirsi, si vive una volta sola! – a scapito della maggioranza planetaria), e questo attraverso ciò che rompe il maligno fato dei limiti biosferici e del contingentamento delle risorse, portando il futuro destino dell’umanità oltre i confini del pianeta. L’assoggettamento dello spazio, l’acquisizione di nuovi mezzi d’insediamento, l’affermazione della noosfera e la trasformazione della Terra, questa culla sacra, focolare primigenio di vita cosciente e percettiva che giunta alla maggiore età si spande nel cosmo e lo anima, sono impossibili senza un contemporaneo assoggettamento del tempo biologico, senza un radicale allargamento dei confini individuali della vita, senza una consapevole gestione dei processi di attività vitale dell’organismo che diventa sempre più flessibile, plastico, potente e indistruttibile. Ad un obiettivo così grandioso può lavorare solo una scienza nuova mossa da un superiore fine di elevazione, espansione evolutiva e salvezza della Vita che abbia raccolto e sintetizzato tutti i suoi ambiti e le sue discipline, tutte le forze creative e ideal-generatrici dell’uomo (arte e religione) in un’unica opera di realizzazione pratica degli imperativi metafisici della fede attivamente cristiana. 
Con quest'opera che riguarda letteralmente e individualmente tutti, l'ideale cristiano giunge alla sua pienezza, rinuncia alla passività e alla concezione fatale delle minacce apocalittiche (le quali sono solo una minaccia, un cattivo pronostico rispetto a una scelta errata, anti-evolutiva e contro Dio, non già un verdetto fatale ed irrevocabile), si libera dell'idea “troppo umana”, vendicativa e gravida di sedizioso nichilismo di una salvezza selettiva, assume il principio della conversione di forze ed energie orientate al male in forze ed energie buone e creatrici, della redenzione dei malvagi e dei peccaminosi, della loro attiva riabilitazione e trasfigurazione. E dunque, dalla attuale scristianizzazione quasi completa di intere regioni un tempo persino portatrici e detentrici della fede, la cristianità operante, che ha portato il cristianesimo in una nuova epoca edificativa del suo sviluppo, che ha rivelato l’universalismo della Buona Novella e il suo carattere attivo divino-umano, sta ottenendo la possibilità di un suo trionfo veramente planetario: un balzo in avanti verso la propria rinascita; di più, verso quella processione per l’intero pianeta, verso quella rivoluzione cristiana delle anime, delle menti e delle volontà che Cristo ha comandato (“Andate e fate discepoli tutti i popoli…”).

Assai importante nel nostro tempo è superare il fatalismo di un unico tipo possibile di sviluppo, di un unico futuro che ci è istillato nelle menti e nel subconscio dalle ideologie e dalle pratiche della globalizzazione. La moderna teoria dell’autoorganizzazione della natura e della società, la sinergetica, asserisce la multidirezionalità dello sviluppo, nonché la presenza di punti di biforcazione legati generalmente alla crisi sistemica e che pongono la possibilità di scegliere nuovi percorsi e modi per progredire. Per di più il presente, come se introducesse in questo processo una sorta di predestinazione, sta cominciando a definire questa nuova scelta e i suoi intuibili risultati, come se vi fosse un “richiamo del futuro”. Ecco perché è così importante, già in sé, il riflesso del superiore, pio scopo portato avanti dal cosmismo russo: già la sua assimilazione inizialmente solo teorica da parte della società comincerà a operare realmente come un fattore evolutivo orientante. 
Quando a suo tempo Vernadskij descriveva i presupposti materiali e le condizioni che venivano a crearsi per un passaggio alla noosfera nel XX secolo, egli indicava – sembra – molte cose per le quali si contraddistingue lo stesso odierno mondo globalizzato: l’universalità dell’umanità che ha assoggettato a sé tutta la biosfera e ha popolato tutta la Terra fin nei luoghi più inaccessibili, il superamento delle barriere spazio-temporali tra regioni e angoli del pianeta, la creazione di mezzi veloci ed efficaci di spostamento e comunicazione che hanno reso il mondo un tutto indissolubile, il progresso scientifico che ha dato vita a un unico cervello terrestre, la massificazione della storia e della vita sociale… Il sorgere della noosfera è un processo planetario oggettivo e sembra che si possa per certi versi farlo collimare con la globalizzazione. Del resto la “sfera della ragione”, rivestimento artificiale della biosfera radicalmente trasformabile dalle idee e dai progetti, dai lavori e dalla creatività dell’uomo, non è affatto così armonica e razionale, porta in sé quelle stesse contraddizioni dell’uomo imperfetto e mortale che le dà la forma. Ma la questione è proprio che la noosfera che esiste come dato di fatto è diversa dalla noosfera autentica, dalla noosfera come ideale che presuppone almeno “il dominio dell’uomo sulla natura esteriore e il dominio della sua ragione sui suoi istinti più bassi” (Vernadskij). Ciò che è importante per lo scienziato russo è un’esatta ed edificativa modificazione del processo oggettivo di noosferizzazione e planetarizzazione, in cui devono convergere l’ideale, il fine e la realizzazione di un’evoluzione cosciente e attiva. Ma l’attuale globalizzazione neoliberale-mercatistica può forse porsi simili problemi ontologici e risolverli?! C’è forse in essa quell’importantissima premessa di creazione della noosfera proposta da Vernadskij, il quale la definiva come unità del genere umano, riconoscimento dell’egual valore delle persone come dato di fatto intimamente naturale?
L’unificazione del mondo, l’adozione del modello della “società aperta”, oggi in sostanza avvengono in virtù della celata cupidigia delle corporazioni transatlantiche, alle quali è necessario un accesso libero alle fonti di energia e forza lavoro a basso costo; qui opera la garrotta standardizzata dei “diritti umani”, spesso del tutto incompatibili nella loro forma occidentale-manipolativa con le tradizioni e i valori religioso-culturali secolari di intere regioni del mondo. Ed invece questi vengono promossi e portati avanti con grande impulso, torcendo le braccia agli arcaisti recalcitranti, introducendo avanzate tecnologie sociali di allettamento delle masse in primis giovanili… Il progresso globalista addensa le ombre e i risvolti malvagi della natura umana rafforzando, sul campo di un’infima libertà, il caos interiore dell’uomo, i suoi impulsi a-morali e persino delittuosi. E così il rifiuto antiglobalista per questo progresso, per il diktat cosmopolitico-mercatistico, l’appoggio ai valori e ai principi naturali della tradizione, del rispetto delle differenze culturali, ecc., insomma una scelta così “retrograda”, risulta essere invero più morale, saggia, orientata a preservare dalle deviazioni satanicamente raffinate della ragione e del comportamento, di quanto non si rinvenga nell’“avanguardia” globalista. Spesso l’“arretratezza” è migliore, più profonda, organica e umana (divina) di un supposto avanzamento sbrigliato lungo percorsi sbagliati.
Tuttavia un’opposizione veramente produttiva al processo di globalizzazione difficilmente potrà avere successo attraverso isolamenti autarchici e autochiusure nei propri valori e nelle proprie norme etnico-culturali. All’odierna globalizzazione neoliberale, economico-industriale, secolare-neopagana occorre contrapporre un progetto ancora più globale, planetario e cosmico: la realizzazione degli ideali della noosfera e del cristianesimo operante. L’homo globalisticus, nel suo culto dell’efficienza economica, calpesta col suo pesante calcagno egoistico il ventre materiale delle culture popolari, cancella la vivace varietà di fisionomie, sensibilità e logiche nazionali. Mentre invece all’uomo planetario noosferico, che si pone il compito ontologico della regolazione delle forze naturali esiziali, del perfezionamento della natura umana, della sua ascesa all’immortalità, questa ricchezza e varietà sono necessarie: che può fare un individuo standardizzato e unidimensionale nell’eone dell’eternità creativa?! L’uomo noosferico assume come unico alleato la percezione esistenziale del popolo, dove già a livello di vita quotidiana e lavoro consacrati, di mitologia e folklore, si manifestava questa profonda cosmicità nel comprendere il mondo, questo congiungimento tra vita ed estetica, quest’idea di attivismo dell’uomo nel sottomettere lo spazio e il tempo e nel combattere le forze della natura e il male (ricordiamo per lo meno le famose immagini, tratte dall’infanzia, dei tappeti volanti, delle mele ringiovanenti, dell’acqua morta e viva, straordinarie emanazioni del sogno fiabesco popolare). 
Il contrasto tra ideali della globalizzazione e della noosfera emerge vividamente nella giocosa fatuità (immaturità), illusorietà e vacuità dei primi e, viceversa, nel rapporto serio e religioso dei secondi nei confronti della vita, dell’uomo, della storia. Il gioco, il trastullo, l’uomo ludico, si affermano nei termini di uno sfruttamento quasi massimamente estetico-raffinato della vita, a cui nell’ultimo decennio si sono aggiunte anche la mania del gioco d’azzardo praticato a livello di massa, mania che svuota tasche e anime, e la tentazione particolarmente pericolosa (specie per i giovani) dell’evasione nel mondo della virtualità, la quale soppianta e sostituisce la realtà. Ciò minaccia di dar vita a un nuovo tipo di uomo che atrofizza in sé quelle percezioni e qualità che sono state implementate dalla stessa evoluzione: attenzione all’oggetto, apertura al mondo soggetto a conoscenza e mutamento, mentre qua assistiamo a una involuzione, a un ritiro in sé stessi, a un fuga nelle fantasie e nelle illusioni ludico-narcotiche, a un indifferente distacco dalla realtà. L’ideale attivamente cristiano e noosferico nato ed elaborato in Russia, al contrario, suppone il passaggio dal mondo secolarizzato con la sua relatività di valori e ostilità a tutto ciò che è assoluto, dalla civiltà per principio extra-cosmica, vacua, fondata sull’accettazione della morte (e che per questo ammette del tutto e persino aspetta da qualche parte in un orizzonte più o meno lontano il fuoco d’artificio della morte universale), all’affermazione della coscienza sconfiggitrice della morte e unificatrice di tutti i popoli della Terra, alla religionizzazione del mondo, alla consacrazione della vita tutta e dell’opera cosmico-trasfigurativa salvifica di ogni essere.