Il 9 novembre 1961 moriva l’ingegnere italo-cinese Mario Tchou e con lui quel sogno d’avanguardia – osteggiato dagli Stati Uniti d’America – che fu anche di Adriano Olivetti, con conseguenze funeste per i destini della nostra nazione. Una storia da ricordare, per tornare a sognare. 

“Mario Tchou era il capo del laboratorio di Pisa e della Divisione Elettronica dell’Olivetti dedita principalmente a quell’epoca al grande calcolatore Elea, era il padre dell’Elea se vogliamo, che fu il primo grande calcolatore al mondo, prima dell’IBM (…) Mario Tchou è morto in un incidente sulla Milano-Torino e in Olivetti c’era la convinzione che fosse stato ucciso da forze risalenti ai servizi americani”. Carlo De Benedetti, Presidente della Olivetti dal 1983 al 1996, in un’intervista concessa il 29 ottobre 2013 a Giovanni Minoli, su Mix 24. (1)
“Adriano Olivetti: quest’uomo rappresenta un problema per il nostro paese”. Le parole pronunciate dal capo dei servizi segreti statunitensi, la CIA, in una riunione di altissimo livello, nella scena inziale della miniserire televisiva RAI “Adriano Olivetti. La forza di un sogno”, andata in onda il 28 e il 29 ottobre 2013 su Rai Uno. (2)

Una lezione per il presente
Che le parole pronunciate da Carlo De Benedetti durante la popolare trasmissione di Giovanni Minoli in merito alla convinzione degli uomini dell’Olivetti sulle vere cause della morte di Mario Tchou, così come gli input sul complotto made in USA inseriti all’interno della miniserire televisiva RAI “Adriano Olivetti. La forza di un sogno” di Michele Soavi, siano forse riusciti a spingere gli italiani ad aprire gli occhi sul ruolo infido giocato dagli Stati Uniti d’America contro il nostro paese, in queste ed altre circostanze, smascherando la rappresentazione propagandistica che li dipinge come l’alleato benevolo della nostra nazione?
Non lo sappiamo, sono stati due squarci di luce – l’intervista di De Bendetti e la messa in onda della miniserie – temporalmente coincidenti e qualitativamente diversi, che sono stati presto sommersi dalla forza oscurante della propaganda statunitense interessata a non far vedere agli italiani le porcherie combinate dai nostri “alleati” d’oltreoceano in oltre 60 anni d’occupazione, il tutto a favore di una narrazione storica falsa e stereotipata stracolma di zone d’ombra fatte di stragi, di assassini, di “incidenti” dolosi sempre privi di colpevoli, di uomini scomparsi nel nulla. Dove però questi “lampi di luce” riescano ad affermarsi a livello mediatico e di cultura di massa acquisendo le forme di verità storiche, non rimane che l’opzione di presentarle come conoscenze dal puro valore documentario su periodi lontani e passati privi di connessione con il presente, verità magari spiacevoli ma comprensibili e giustificabili per il clima della “guerra fredda” ed altre circostanze eccezionali che li rendevano inevitabili, continuando quindi a cercare di velare, sviare e limitare la portata rivoluzionaria di quelle rivelazioni storiche. Così facendo quegli “squarci di luce” perdono forza splendente e illuminano meno – e male – solo una metà, il passato, creando un fossato con l’epoca attuale: le responsabilità, gli interessi, il modus operandi, le dinamiche e la mentalità degli attori storici che quelle verità rivelano non devono essere comprese appieno per non diventare materia da cui trarre lezioni per il presente; un presente dove quegli stessi attori e quelle stesse forze, riconducibili agli USA e ai suoi scagnozzi italiani, continuano ad essere i padroni della nostra nazione, giocandovi un ruolo perfido, continuando a liquidare qualsiasi uomo italiano – sia questo un nuovo “Mario Tchou”, un nuovo “Adriano Olivetti” o un nuovo “Enrico Mattei” – che possa rappresentare un “problema” per il loro predominio sull’Italia, pur in assenza di “guerra fredda”, di “pericolo comunista”, di “emergenze democratiche”.
Per questo crediamo sia utile ritornare a ricordare certe figure e certi passaggi storici, non per amore della storia fine a se stesso, ma per comprendere le ragioni profonde di certi avvenimenti che hanno segnato negativamente e traumaticamente la storia di questa nazione e dotarci così, nello stesso tempo, di un arsenale interpretativo capace di riconoscere nel presente le trame sovversive e gli atti ostili compiuti ancor oggi nei confronti dell’Italia da quelli che subdolamente si continuano a chiamare come “alleati”, ma che la conoscenza della nostra storia e l’intuizione delle dinamiche attuali ci deve indurre a qualificare senza indugio come “occupanti” e “nemici” (anche se per far questo basterebbe molto probabilmente sapere – o voler vedere – che ci sono circa 110 basi e installazioni militari statunitensi sul territorio italiano, da Nord a Sud, da Aviano a Sigonella passando per Camp Ederle, Camp Darby e Napoli, con circa 15.000 militari e 15.000 “civili”).
L’Italia dovrebbe comprendere – dato che l’Unione Europea non lo fa a livello europeo e men che meno lo fa l’odierna classe politica nazionale, anzi molto spesso è proprio il contrario – la necessità e il dovere di difendere, con le unghie e con i denti dagli attacchi esterni e di sostenere in tutti i modi quegli uomini speciali, le loro imprese d’alta tecnologia e avanguardistiche, per l’apporto fondamentale che danno alla crescita morale e materiale di tutta la comunità nazionale e che le permettono di innestarsi su dei binari di sviluppo economico profondo e duraturo, fatto di alta tecnologia, ricerca, sviluppo e innovazione, basi della libertà, della forza e della dignità di una nazione.
Il filo storico che lega le vicende di Mario Tchou, inseparabile da quelle di Adriano Olivetti (entrambi attivi nello strategico settore alto-tecnologico dell’elettronica-informatica), di Felice Ippolito (nel settore alto-tecnologico del nucleare), di Enrico Mattei (in quello strategico dell’energia), di Domenico Marotta (della chimica), di Sergio Stefanutti (dell’aeronautica), quel filo che arriva fino alla guerra imposta all’Italia contro il suo alleato Muammar Gheddafi nel 2011 e alle sanzioni economiche alla Russia (...), Tangentopoli, l’esilio di Bettino Craxi (nel campo strategico per eccellenza, quello politico) e la morte di Raul Gardini (ancora la chimica), è una trama storica che ci svela i segni e le tracce, di volta in volta più o meno occulte, di una “manina d’oltreoceano” sempre attiva e sempre pronta a liquidare con le buone o con le cattive – e sempre con la complicità di una lobby interna tutta italiana di passaporto ma nella sostanza anti-nazionale perché totalmente prona agli interessi dello straniero e dei propri meschini dividendi di “casta”– di liquidare quei compatrioti che ora per genio, ora per arditezza, per onestà e per vigore rappresentano una grande opportunità per la nazione, una risorsa e un valore per i destini della Patria ma che proprio per questo sono un “problema” grave per gli Stati Uniti d’America interessati a mantenere il proprio predominio. E per i loro vassalli interni, interessati a coltivare i propri meschini interessi di bottega e portatori dal dopoguerra di un machiavellismo ideologico deformato dal servilismo che ha condotto ben presto l’Italia sui binari morti di uno sviluppo capitalistico subordinato, maturo e poi marcio che ha innescato una crescita esponenziale delle mafie - spesso in combutta con questi vassalli - e una spirale deleteria fatta di giochi di borsa e finanziarizzazione, speculazioni sull’ambiente, sulla salute e suoi diritti dei lavoratori, mungitura delle risorse statali da parte d’imprese mature e decotte, abnorme pubblico impiego come cassa di compensazione per la disoccupazione, “bolle” di lauree prive di sbocchi occupazionali, deindustrializzazione e svendita a multinazionali straniere senza scrupoli dei restanti comparti industriali, il tutto con l’ausilio di un ceto intellettuale a libro paga di volta in volta chiamato a fornire coperture ideologiche mistificatorie e giustificatorie a questi sviluppi patologici. Un sistema che prima o poi si sarebbe rotto, comportando una dolorosa ristrutturazione per il popolo italiano, ma senza che fosse permesso che le vere cause del disastro venissero alla luce.
Questi vassalli interni cercano però di rimanere in piedi nel trambusto, cercando manforte nei padroni d’oltreoceano. Una soluzione buona per entrambi sarebbe la trasformazione della nazione in una riserva di manodopera a basso costo, dequalificata e desindacalizzata dove le multinazionali straniere di settori maturi (specialmente statunitensi) possano venire a delocalizzare, garantendo quindi quel minimo di crescita ed occupazione indispensabile a non far crollare la baracca italiana ed evitando nello stesso tempo che questa possa finire nell’orbita di attori geopolitici non atlantici; il consenso pressoché unanime e trasversale espresso dal ceto politico italiano all’accordo TTIP/TAFTA si legge anche in quest’ottica, oltre ad essere una complessiva operazione anti-europea. Per rendere appetibile l’Italia a queste corporation è però necessario tagliare il costo del lavoro, cioè i salari dei nostri padri, delle nostre madri e dei nostri figli, mettendoli in concorrenza con un’inesauribile manodopera dequalificata immigrata, ma anche smantellare in parallelo i diritti del lavoro conquistati in decenni di lotte sindacali: da qui gli stipendi e le pensioni da fame e le case pignorate, da qui la precarietà – ormai a vita – per la maggioranza dei lavoratori, da qui l’emigrazione e l’abbandono forzato dei nostri giovani e meno giovani della propria Patria, da qui la povertà sempre più diffusa in ampi strati della popolazione che preludono a scenari di forte tensione sociale, che si cercherà di contenere e sviare – rendendoli innocui – in vari modi, molti dei quali già collaudati – per motivi diversi – anche durante la famigerata “strategia della tensione”.
Mario Tchou era sicuramente un “problema” per quelle forze interne ed esterne nemiche della nazione più sopra ricordate, perché racchiudeva in se stesso il genio e la forza al servizio di un sogno di sviluppo industriale e tecnologico per un’Italia avanguardista e che perciò ha pagato con l’ostracismo e, molto probabilmente, con la propria vita queste sue qualità così preziose per una crescita materiale e morale duratura – e non effimera – della collettività nazionale. Con quest’articolo parliamo di Mario, ma proprio perché parliamo di lui, non si può non ricordare brevemente e cominciare questa storia da chi l’ha voluto acconto a sé in una delle posizioni più importanti e delicate della propria impresa, e che l’ha informato dei suoi ideali: il grande Adriano Olivetti.

Un sogno dalla forza irresistibile
Di origini ebraica da parte di padre, oppositore del regime fascista, cattolico, profondamente innamorato dell’Italia e nello stesso tempo sostenitore del federalismo europeo in quell’Europa uscita martoriata da una guerra civile devastante, informato da una sintesi creativa tra cultura tecnico-scientifica e cultura umanistica e alfiere di un modello comunitario della società e dell’impresa che andava oltre alle teorie del capitalismo e del comunismo, una terza via di stampo liberal-socialista originale e approfondita in numerosi scritti e che per breve tempo prese forma in un vero e proprio partito politico da lui condotto, il “Movimento Comunità”, Adriano Olivetti rilanciò nel dopoguerra l’azienda omonima produttrice di macchine da scrivere ereditata dal padre trasformandola in una grande impresa radicata ad Ivrea (Torino) e in Italia, ma proiettata su scala mondiale, capace di incunearsi nei settori dell’alta tecnologia e plasmandola secondo i suoi modelli comunitari. 

Adriano Olivetti.

Un’impresa dove fu possibile creare un equilibrio tra solidarietà sociale e profitto, dove l’organizzazione del lavoro comprendeva un’idea di felicità collettiva che generava efficienza e alta produttività, dove gli operai vivevano in condizioni migliori rispetto alle altre grandi fabbriche italiane (rispetto soprattutto alla vicina FIAT, incarnazione di un modello opposto a quello di Adriano), ricevevano salari più alti, dove vi erano asili e abitazioni vicino alla fabbrica che rispettavano la bellezza dell’ambiente, dove i dipendenti godevano di convenzioni speciali e una formazione continua attraverso gli ingenti investimenti in quelli che oggi chiameremo “Ricerca e Sviluppo”, unendo in sinergia umanisti e tecnici, con un Centro Culturale dell’azienda che attraverso l’istituzione di biblioteche, l’organizzazione di conferenze, incontri con uomini di cultura, di lettere, di poesia, di cinema mirava alla crescita umana, culturale e spirituale, dei propri dipendenti. Gli operai erano così incentivati a dispiegare una collaborazione attiva alla buona riuscita dell’impresa, non essendoci terreno fertile per una logica conflittuale a prescindere con il “padrone”, un’ideologia dannosa, fine a se stessa e fuori luogo in quel contesto. Un contesto che per molti versi era simile a quello che Enrico Mattei andava costruendo nell’ENI.
La mente visionaria di Olivetti, oltre a tutto ciò, aveva immaginato e compreso il ruolo cruciale che avrebbe giocato l’informatica nei futuri destini dell’umanità e voleva che l’Italia ne diventasse la protagonista, ne tracciasse la via da seguire, in modo originale e indipendente: “Adriano “non intendeva far dell’Italia una colonia tecnologica, ma edificare dall’interno della sua azienda la via italiana all’informatica. L’azienda non poteva rimanere estranea al più grande processo di innovazione industriale in corso e decise di creare un laboratorio elettronico ad Ivrea. Adriano era sempre più convinto che l’elettronica costituisse un settore decisivo per lo sviluppo dell’umanità” (Come le citazioni che seguiranno nell'articolo, anche questa è tratta dal libro fondamentale di Marco Pivato, “Il Miracolo scippato. Le quattro occasioni sprecate della scienza italiana negli anni sessanta”, capitolo “Il caso Olivetti”, Donzelli Editore, Roma, 2011).
Una visione, quella di Adriano, che cozzava però con l’indirizzo strategico americano deciso a mantenere per sé il monopolio dell’elettronica e il predominio nel nuovo campo dell’informatica che si andava aprendo.
L’impresa di Adriano avrebbe dato nello stesso tempo impulso anche all’evoluzione del sistema universitario italiano in direzione di una maggiore attenzione verso le materie scientifiche e tecniche d’avanguardia; riformare in questo senso il sistema educativo nazionale avrebbe voluto dire porre un importante tassello per uno sviluppo della nazione capace di intercettare l’ondata incipiente della terza rivoluzione industriale.
Quella di Adriano era un’impresa entusiasmate – eroica date le condizioni geopolitiche e geoeconomiche di subordinazione agli Stati Uniti d’America in cui si trovava il nostro paese – che s’inoltrava nell’esplorazione di terre ignote dalle enormi potenzialità.
Per la riuscita di quest’impresa Adriano credeva fondamentale l’apporto dei giovani, della loro mente aperta ai nuovi orizzonti da esplorare e del loro spirito d’avventura e di conquista; per questo volle attorno a sé, selezionandola attentamente, il meglio che la gioventù potesse offrire. E fra i tanti giovani dotati passati di fianco ad Adriano, uno in particolare sarebbe stato il più talentuoso discepolo e poi l’alfiere della sua grande visione: Mario Tchou.

Mario Tchou: l’ingegnere italo-cinese punta di diamante del sogno olivettiano
Mario Tchou, con un nome italianissimo e con un cognome chiaramente orientale, era il figlio dei cinesi Yin Tchou, funzionario dell’Ambasciata cinese presso il Vaticano e di Evelyn Wauang; Mario era quindi un puro sangue cinese nato e cresciuto nella capitale, dove si sarebbe diplomato nel 1942 presso il liceo classico Torquato Tasso. Iscrittosi poi alla facoltà d’ingegneria all’Università di Roma nel corso del terzo anno si sarebbe trasferito, per motivi di studio, negli Stati Uniti. Nel 1947 avrebbe conseguito la laurea in ingegneria elettrica. Nel 1949 si sarebbe infine sposato a New York con Mariangela Siracusa. Diventato poi professore d’ingegneria elettronica presso la Columbia University di New York e direttore del Marcellus Hartley Laboratory, fu nel 1955, allora poco più che trentenne, che il destino lo portò ad incontrarsi alla Columbia University con Roberto Olivetti (figlio di Adriano) che l’avrebbe poi convinto a lavorare al laboratorio di ricerca che l’azienda di Ivrea aveva a New Canaan, in Connecticut.

Mario Tchou, sulla destra, in compagnia di Roberto Olivetti.

Il giovane ingegnere italo-cinese rimase entusiasmato dai progetti dell’Olivetti e attratto dalla possibilità di lavorare per un’azienda della terra natia.
Adriano riconobbe subito le potenzialità di quel giovane dai modi italo-orientali così eleganti e soavi e cercò di averlo accanto a sé, in Italia, pronto ad affidargli incarichi di altissima responsabilità. I risultati non soddisfacenti del laboratorio americano furono la scusa per convincere Mario a tornare in Patria e per metterlo alla guida del Laboratorio di Ricerche Elettroniche Olivetti appena istituito a Barbaricina, presso Pisa, dove un gruppo di giovani e giovanissimi ricercatori avrebbe avuto il compito di costruire un calcolatore di tipo commerciale.
Fu al Laboratorio di Ricerche Elettroniche Olivetti che le doti formidabili di Mario esplosero. L’ingegnere italo-cinese aveva le stesse qualità di Adriano: una mente aperta e visionaria sugli orizzonti e le potenzialità sconfinate dell’informatica per l’umanità, un entusiasmo incontenibile nell’impresa e una grande passione per i giovani, “perché le cose nuove”, diceva, “si fanno solo con i giovani. Solo i giovani ci si buttano dentro con entusiasmo, e collaborano in armonia senza personalismi e senza gli ostacoli derivanti da una mentalità consuetudinaria”. Se dal punto di vista tecnico Mario ebbe la grande intuizione di utilizzare il silicio nell’hardware e di buttarsi sui transistor, dal punto di vista organizzativo era ancora più audace di Adriano, rompendo gli schemi aziendali e dando vita ad un gruppo di ragazzi ai quali non veniva chiesto di “timbrare il cartellino”, quanto di essere parte integrante della missione e di realizzare un obiettivo. E quell’obiettivo era di fare dell’Olivetti un’impresa leader a livello mondiale nell’informatica e dell’Italia una nazione apripista e avanguardistica in quello strategico settore.
Ma Mario era consapevole dei grandi ostacoli che gli si ponevano innanzi, sia esterni che interni; quest’ultimo si concretizzava in una forma di disinteresse organizzato da parte dello Stato italiano su tutto ciò che stava accadendo nel teatro della competizione scientifica internazionale nell’informatica: ”Attualmente, possiamo considerarci allo stesso livello dei concorrenti dal punto di vista qualitativo”, diceva Mario. “Gli altri però ricevono aiuti enormi dallo stato. Gli Stati Uniti stanziano somme ingenti per le ricerche elettroniche, specialmente a scopi militari. Anche la Gran Bretagna spende milioni di sterline. Lo sforzo dell’Olivetti è molto notevole, ma gli altri hanno un futuro più sicuro del nostro, essendo aiutati dallo stato”.
L’Olivetti non aveva infatti sostenitori nel mondo politico e neanche da parte dell’establishment di Confindustria (egemonizzato dalla FIAT degli Agnelli, strettamente legata al capitalismo statunitense e impaurita di perdere il predominio interno di fronte alla “distruzione creatrice” operata dall’Olivetti) e del mondo bancario italiano (egemonizzato dalla Mediobanca di Cuccia legata al sistema finanziario angloamericano); più facile immaginare un vero e proprio fuoco di sbarramento di fronte alla scalata tentata dall’Olivetti. Per questo l’impresa di Adriano e Mario era a dir poco eroica e i risultati furono perciò, ancora più strabilianti.
Nel 1958 il Laboratorio di Ricerche Elettroniche Olivetti si sarebbe trasferito a Borgolombardo, vicino a Milano. 

Foto di gruppo dei tecnici di Borgolombardo, dal 1958 sede del Laboratorio di Ricerche Elettroniche della Olivetti, guidato da Tchou. Nella foto, pubblicata anche dal settimanale Epoca che nel 1959 dedica un servizio alla nascita dell’elettronica in Italia, compaiono Tchou e Ettore Sottsass Jr (prima fila) e Pier Giorgio Perotto (terza fila). Fonte.

Sempre in quell’anno, nata dal genio della giovanissima squadra del Laboratorio guidata da Mario, vide la luce Elea 9000 (si veda in proposito il breve documentario più sotto riportato), il primo calcolatore elettronico italiano tutto a transistor e che, nell’evoluzione 9003 del 1959, sarebbe diventato il primo computer mainframe nel mondo, il primo computer commerciale a transistor, ricco di innovazioni come la costruzione logico-sistemistica, il multitasking; una tecnologia da primato assoluto resa ancora più straordinaria dal design sofisticato di Ettore Sottsass, nel solco di quella tradizione olivettiana che sfornava prodotti capaci di miscelare superbamente insieme alte performance tecnologiche e raffinata estetica.
Questo salto in avanti tecnologico che bruciava sul tempo gli altri concorrenti (quasi tutti statunitensi, come nel caso parallelo di Enrico Mattei e delle “Sette Sorelle”) e che poneva il nostro paese nell’invidiabile posizione di essere la prima nazione al mondo in questo decisivo settore high-tech che si andava ormai affermando nell’incipiente terza rivoluzione industriale, creava non pochi problemi nei rapporti con gli Stati Uniti d’America. I politici democristiani avrebbero capito perfettamente la delicatezza del caso; “con l’entrata ufficiale nel campo dell’informatica”, infatti, “l’Italia diventava un paese industriale avversario delle concorrenti straniere e rientrava così nella lista delle potenze con quei mezzi e quelle conoscenze ‘sensibili'”. L’Olivetti diventava quindi un “problema” per i padroni d’oltreoceano e per i subdominanti italiani.


“Elea classe 9000″, il documentario realizzato da Nelo Risi per la Olivetti nel 1960. Dal minuto 6.20 si può vedere anche un breve intervento di Mario sul nuovo calcolatore.


Un “uno-due” micidiale per le sorti dell’informatica italiana e della nazione
“Adriano Olivetti: quest’uomo rappresenta un problema per il nostro paese”, sono le parole di fantasia fatte pronunciare dal capo della CIA nella miniserie RAI, già ricordate all’inizio di questo articolo. Ma anche nella realtà l’Olivetti, e ancor più dopo l’apporto propulsivo di Mario che gli avrebbe consentito di fare un prodigioso balzo in avanti, era veramente un “problema” molto serio per la supremazia strategico-militare statunitense. 

La riunione della CIA in cui si discute il “problema Olivetti” secondo la ricostruzione della miniserie Rai “Adriano Olivetti. La forza di un sogno”.

Ancora più lo era, se si presta attenzione al fatto che negli stessi anni l’Italia, gradualmente egemonizzata dall’azione poderosa di Enrico Mattei, stava riuscendo nell’impresa di traghettare la nazione italiana fuori dai recinti della NATO (egemonizzata dagli USA), attuando spregiudicate collaborazioni politico-economiche vantaggiose per la nostra nazione con quei paesi che gli americani consideravano ostili, dall’URSS di Krusciov all’Egitto di Nasser, collaborazioni che un’Italia così intraprendente guidata da un uomo come Mattei non si sarebbe molto probabilmente contentata di limitare nel già delicatissimo settore energetico, ma che avrebbero certamente coinvolto anche quello informatico, magari raggiungendo pure quella Cina comunista con cui il fondatore dell’ENI aveva già cominciato a stringere relazioni e che con Mario avrebbero, per forza di cose – data la sua origine e le sue relazioni attraverso il padre funzionario all’ambasciata cinese – avuto un ulteriore e decisivo impulso, consentendo all’Italia di emanciparsi dalla “tutela” USA, diventando punto di riferimento di tutto un mondo emergente (così come teorizzava negli stessi anni anche Giorgio La Pira) e non-allineato, scombussolando così il quadro delle alleanze in quel campo occidentale dominato dagli Stati Uniti d’America.
L’Olivetti era quindi un “problema” più che serio, Adriano lo era, come lo erano Mario Tchou ed Enrico Mattei. Ma mentre per quell’“incidente” aereo che – a Bascapè, la sera del 27 ottobre 1962 – mise traumaticamente termine alla vita del fondatore dell’ENI risulta definitivamente provata l’origine dolosa attraverso le indagini giudiziarie del valoroso Pm Vincenzo Calia, altrettanto non si può dire per le dinamiche relative alla morte di Adriano (e per quella di Mario), anche se sul suo decesso sono rimasti molti dubbi e sospetti, alimentati anche dal fatto che sul suo cadavere non sarebbe mai stata eseguita alcuna autopsia.
Era il 27 febbraio 1960, quando Adriano prese il treno Milano-Losanna. Ma nei pressi di Aigle, in Svizzera, fu colto da un presunto infarto di origine naturale. Inutili furono i soccorsi. Adriano aveva 59 anni. Fu uno shock per tutta l’Olivetti, anche per Mario. Sarà lui a prendere, nella pratica, in mano le redini dell’azienda e a farsi carico di portare avanti il sogno di Adriano, con quella stessa grinta e con quella stessa determinazione che erano state proprie di colui che l’aveva voluto in Italia, accanto a sé e a capo del progetto più importante dell’impresa e della sua vita.
Il Laboratorio di Ricerche Elettroniche proseguì quindi nel suo lavoro, guidato da Mario, pronto a sbalordire di nuovo il mondo.

La foto ritrae Mario Tchou, al centro, a Ivrea nel 1961 in occasione della visita dell’industriale tedesco Krupp (il primo a sinistra) agli stabilimenti Olivetti. Fonte.

Ma, circa un anno dopo la morte di Adriano, anche Tchou andò incontro al suo tragico destino. Era il 9 novembre del 1961, e mentre era in macchina in direzione di Ivrea per andare a discutere di un importante progetto di sviluppo software che avrebbe permesso ai computer Elea di fare un ulteriore balzo in avanti, fu vittima di un pauroso incidente automobilistico, morendo così all’istante, insieme all’autista, all’età di soli 37 anni.
Questa volta il colpo, solo dopo un anno dalla scomparsa di Adriano, fu molto duro e difficile da assorbire per l’azienda, privata come fu, nel giro di pochissimo tempo, dei suoi due indiscussi e carismatici condottieri.
Già abbiamo ricordato le parole di De Benedetti ad inizio di questo articolo. Anche il giornalista Marco Pivato, nel suo libro-inchiesta “Il miracolo scippato”, scrive al riguardo: “Sulla morte di Tchou vi furono molti sospetti sui mandanti occulti. Secondo alcuni colleghi viventi dell’ingegnere Tchou, sentiti per ricostruire questa storia, l’ipotesi è questa: aver affidato ad un “muso giallo” il compito di condurre l’Italia nei segreti dello strategico mondo dell’informatica, non poteva non destare le preoccupazioni di chi, in quel momento storico, aveva il maggior interesse a monopolizzarlo, o per lo meno a primeggiarvi, e cioè gli Stati Uniti”.
Con la scomparsa di Mario, la manovalanza atlantista italiana trovava la strada spianata per completare l’opera di distruzione del reparto elettronico dell’Olivetti che così intimoriva gli ambienti industriali e politico-militari statunitensi e gli equilibri interni italiani.
Con la scusa delle difficoltà finanziarie in cui si sarebbe trovava l’azienda d’Ivrea – frutto dell’ostilità del mondo politico e finanziario italiano, come aveva ricordato in proposito anche lo stesso Mario – si sarebbe fatto così avanti un gruppo misto pubblico-privato, il cosiddetto “gruppo d’intervento”, in cui a fianco della Imi e della Banca Centrale, sarebbero spiccati la Fiat degli Agnelli – in strettissimi rapporti con il mondo politico-imprenditoriale USA – e quella Mediobanca di Enrico Cuccia che fu ab origine strettamente legata alla finanza anglosassone attraverso il Piano Marshall, imponendosi come centro affidabile di una regolazione di un credito che si sarebbe dovuto aprire e chiudere solo conformemente ai gradimenti della lobby-loggia atlantista nostrana; quel Cuccia che aveva già avuto modo di scontrarsi duramente anche con Enrico Mattei.
Tutti questi soggetti entrarono nel capitale Olivetti con intenzioni non certo benevole, tutt’altro. L’intenzione era quella di normalizzare l’anomalia di un’azienda che si era spinta troppo oltre. E questi bassi propositi si sarebbero ben condensati in una tristemente famosa dichiarazione rilasciata nel 1964 da Vittorio Valletta, presidente della Fiat: “La società di Ivrea è strutturalmente solida e potrà superare senza grosse difficoltà il momento critico. Sul suo futuro pende però una minaccia, un neo da estirpare: l’essersi inserita nel settore elettronico, per il quale occorrono investimenti che nessuna azienda italiana può affrontare”.
“Un neo da estirpare”: in questa frase si riassume tutta la spregiudicatezza e la meschinità di quelle forze politico-economiche italiane che ponendosi in modo complementare all’economia statunitense, furono di conseguenza contrarie allo sviluppo di industrie high-tech autoctone che avrebbero squilibrato questo lucroso (per loro) rapporto, facendosi così portatrici, imponendosi, di un boom effimero basato su tecnologie ed industrie che sarebbero presto diventate mature. Sono ancora queste stesse forze subdominanti che a tutt’oggi, pur essendo la “coperta” ormai praticamente finita ed essendosi ormai mangiato il mangiabile – sopravvivendo solo con le ignobili speculazioni della finanza e con la compressione dei diritti e dei salari dei lavoratori – e pur in un contesto geopolitico internazionale profondamente diverso da allora, continuano ad essere ostili e contrarie allo sviluppo di determinati settori high-tech nazionali che possano metterci anche solo potenzialmente in concorrenza con i padroni statunitensi impedendoci di sviluppare forti relazioni politico-commerciali con i BRICS - Russia e Cina in particolare - fuori dai recinti della NATO, portandoci inevitabilmente verso il collasso economico e sociale. Sono quelle forze anti-nazionali, che il teorico Gianfranco La Grassa ha denominato Grande Finanza ed Industria decotta, che in sinergia con l’establishment politico/militare e dei servizi segreti, rimane incancrenito sui sempre più scarni dividendi di uno schema di ripartizione del potere internazionale ormai sempre più eroso dall’evolversi della storia mondiale e dalla crisi economica nazionale ed occidentale.
Quella “manina d’oltreoceano” che fu d’ispirazione al “gruppo d’intervento”, sarebbe infine uscita da dietro le quinte e si sarebbe concretizzata nella forma di una grande corporation statunitense pronta a “papparsi” il piatto succulento. “La nuova società, che costituisce il ramo della ricerca scientifica olivettiana, viene venduta per il 75% su decisione del “gruppo d’intervento”, alla multinazionale americana General Electric. Con la vendita – o svendita per dirla con le parole di Giuseppe Rao – della Divisione Elettronica Olivetti, la politica industriale italiana cede definitivamente agli Stati Uniti il primato nella ricerca scientifica applicata all’informatica. E’ pertanto verosimile”, conclude Pivato “che sulla vicenda della Divisione Elettronica Olivetti all’americana General Electric ci siano state pressioni direttamente da parte degli USA. C’è dopotutto una sovrapposizione d’interessi tra gli USA e le aziende del gruppo d’intervento Fiat, Mediobanca e Iri. Infatti, anche senza chiamarlo “debito”, le aziende di cui sopra hanno un vincolo solidale con gli Stati Uniti, dal momento che proprio quelle aziende sono state le maggiori beneficiarie degli aiuti erogati in base al Piano Marshall negli anni del Dopoguerra. Mario Caglieris, tesoriere della Olivetti al tempo del gruppo di intervento guidato dalla Fiat, “ha ammesso che ci sono state effettivamente esplicite pressioni da parte di imprese americane affinché si vendesse la Divisione Elettronica Olivetti e che l’Italia non potenziasse il suo sapere nel mercato dell’informatica”.
Fu così che il nocciolo di un’azienda gioiello del panorama industriale italiano e così promettente per un sano sviluppo socio-economico nazionale, venne regalato agli statunitensi, inaugurando una metodologia che avrebbe, ahinoi, fatto scuola. Quello di svendere, con la scusa di dover far cassa e per ragioni puramente finanziarie, le industrie di punta italiana a concorrenti stranieri – finendo così per essere destrutturate, depotenziate, ridotte a semplici succursali di marketing e private di una visone industriale di sviluppo autonoma – diventerà una pratica consolidata che raggiungerà l’apoteosi con la svendita nei primi anni ’90 – seguente all’operazione “Mani Pulite”  in cui la “manina d’oltreoceano” giocò un ruolo non secondario e alla riunione sul Panfilo Britannia – del residuo patrimonio industriale italiano.
Lorenzo Scoria, nel suo libro “Informatica: un’occasione perduta. La Divisione elettronica dell’Olivetti nei primi anni del centro-sinistra”, conclude così: “Sono convinto che il nodo da sciogliere sia un nodo politico. E che sia questo il motivo per cui il progetto di Adriano Olivetti ha fatto la fine che ha fatto e con il passare degli anni la situazione è, se possibile, peggiorata: nessuno cioè ha ancora saputo dire “no” al ruolo subalterno in cui la divisione internazionale del lavoro ha relegato il paese. L’informatica è solo uno dei tanti episodi che confermano questa emarginazione”.
C’è la speranza e la possibilità, per riprendere le parole di Scoria, che oggi qualcuno sappia dire di “no”, prima che sia troppo tardi? E c’è la speranza e la possibilità che il sogno di Adriano e di Mario possa tornare in vita?


Da quel sogno spezzato… per tornare a sognare
Da quei semi gettati negli anni da Adriano e da Mario sarebbero maturati lo stesso, anche dopo il micidiale “uno-due” del ’60 e del ’61 e dopo la svendita della divisione elettronica, degli splendidi frutti, come l’Olivetti Programma 101, un calcolatore da scrivania con stampante integrata progettato da Pier Giorgio Perotto e che avrebbe conquistato fama mondiale. Ma per forza di cose, senza nutrimento e senza sostegno, attaccati da voraci infestanti, quei semi e quei frutti avrebbero presto, dopo pochi anni, finito per deperire o rimanere inglobati, schiacciati e soffocati da altri arbusti nutriti quotidianamente con acqua e minerali, quelle grandi corporation (in teoria private ma di fatto di Stato) statunitensi che ora cominciavano a proiettarsi su scala mondiale senza rivali esteri, a dominare incontrastate il mercato, soffocando e inglobando le piccole e medie imprese dei concorrenti e dominando il campo della ricerca e degli sviluppi in campo informatico.
Non è un esercizio inutile pensare a cosa sarebbe stata l’Italia senza quell’“uno-due”, senza quell’indegno isolamento e ostracismo a cui furono sottoposti Adriano e Mario e senza la svendita del “gruppo d’intervento”: serve a riflettere sulle conseguenze delle azioni compiute nel passato e di quelle che accadono nel presente e soprattutto ad immaginare il futuro della nostra nazione, un futuro non di morte – logico sbocco delle attuali premesse se nulla dovesse cambiare – ma un futuro di riscatto e di vita.
Così, è più che probabile che se quei fatti non si fossero verificati, il Datagate non avrebbe ignobilmente dimostrato agli italiani non solo come vengano da anni quotidianamente spiati in tutto – dal campo economico a quello politico – dagli “amici” americani ma anche l’enorme gap tecnologico che da loro ci separa; inoltre i nostri giovani non starebbero probabilmente come idioti a venerare come guru cascati dal cielo certi personaggi come Steve Jobs e Bill Gates che con tutta probabilità, senza quella “manina d’oltreoceano”, non avrebbero avuto spianata la strada al predominio mondiale delle loro imprese nell’informatica e poi in internet, personaggi e aziende su cui l’abile propaganda statunitense costruisce e racconta oggi al mondo un film che esclude sapientemente il primo tempo che in questo articolo abbiamo raccontato, per sostenere la favola di una Silicon Valley cresciuta da sola, libera e spontanea, senza “manine” e senza ”estirpazione dei nei” dei concorrenti.
Affinché oggi l’Italia possa dire “no” e si possa ribellare ad una divisione internazionale del lavoro che non solo l’ha tenuta fuori dal mondo high-tech ma che la sta conducendo alla deindustrializzazione completa e alla miseria, a bordello turistico e a terra di conquista delle mafie, è necessario recuperare quella grinta e quella visione che furono propri di uomini come Adriano Olivetti e Mario Tchou.
Quel sogno di un futuro in cui sia possibile conciliare la grande impresa industriale con l’entusiasmo di una grande visione e l’arditismo giovanile, la solidarietà sociale con la proiezione globale, la responsabilità d’impresa con l’innovazione tecnologica e la ricerca scientifica, in cui venga ridata dignità al lavoro vero e produttivo e non alle speculazioni di borsa su cui hanno lucrato i parassiti atlantisti italiani e angloamericani a partire dagli anni ’80, quegli "incappucciati della finanza" - per riprendere le sue stesse parole - contro cui tuonò inutilmente Federico Caffè. 
Un futuro in cui l’Italia possa porsi alla testa di quelle nazioni europee che rifiutano l’occupazione statunitense del continente, un’occupazione che deforma l’Unione Euopea e la trasforma in un tiranno e in un carnefice dei suoi popoli.
Una grande visione del futuro, in cui l’Italia sia chiamata a giocare un ruolo di primo piano e d’avanguardia nel mondo della scienza e della tecnica dell’oggi e del domani, come volevano Mario ed Adriano, esplorando con entusiasmo gli orizzonti delle nuove scoperte scientifiche e delle nuove tecnologie che vanno dai computer quantistici alle biotecnologie, dall’intelligenza artificiale alla robotica, dal nucleare all’ingegneria genetica, dalle nanotecnologie all’aerospazio… Ma per fare questo ci vuole una classe politica che protegga e promuova – con una politica di Big Science – i suoi “tesori”, senza farseli soffiare da sotto il naso, come è successo troppe volte in passato; e gli italiani devono rendersene conto prima che sia troppo tardi. Questo è l’ultimo appello, è l’ultima chiamata cara Italia: quel sogno di Adriano e di Mario, che era anche il sogno di Enrico Mattei e Giorgio La Pira, non è ancora definitivamente perduto. Può ancora risorgere. 
Michele Franceschelli

Note:
Fonti principali:

  • Capitalismo predatore. Come gli USA fermarono i progetti di Mattei e Olivetti e normalizzarono l’Italia, Bruno Amoroso e Nico Perrone, Castelvecchi, 2013
  • Il miracolo scippato. Le quattro occasioni sprecate della scienza italiana negli anni sessanta, Marco Pivato, Donzelli Editore, 2011
  • Tre appuntamenti mancati dell’industria italiana, Mario Pirani, “il Mulino” n. 6/91
  • Il disastro di una nazione. Saccheggio dell’Italia e globalizzazione, Antonio Venier, presentazione di Bettino Craxi, Padova, Edizioni di Ar, 1999. 
  • Informatica: un’occasione perduta: la Divisione ‬‬‬‬‬‬‬‬‬‬‬‬‬‬‬‬‬‬‬‬‬‬‬‬elettronica dell’Olivetti nei primi anni del centrosinistra‬, Lorenzo Soria, G. Einaudi, 1979
    Articolo originariamente pubblicato sul giornale on-line 'Stato e Potenza'