mercoledì 20 febbraio 2013

TTIP/Tafta: una “Nato economica” contro l’Europa




di Michele Franceschelli


Il TAFTA – Transatlantic Free Trade Area, l’accordo di libero scambio tra Unione Europea e Stati Uniti d‘America i cui negoziati dovrebbero cominciare tra qualche mese –   è solitamente definito dai suoi promotori come una “NATO economica” (1). Una tale designazione rivela non solo l’importanza strategica che gli viene attribuita ben oltre ad una dimensione strettamente commerciale, ma anche come i paesi della NATO si stiano predisponendo sul campo economico con delle logiche mentali che ricalcano quelle militari e rimandano a quelle della “guerra fredda”, evidentemente mai abbandonate anche dopo la scomparsa dell’Unione Sovietica e oggi semplicemente aggiornate. Infatti il nuovo spauracchio che sta sullo sfondo di questo trattato è la Repubblica Popolare Cinese (2).
L’amministrazione statunitense di Barack Obama ha rilanciato l’idea dell’accordo con la visita del vicepresidente Joe Biden a Monaco ad inizio mese (3).  In Europa sono la Germania e l’Inghilterra a spingere sull’acceleratore per avviare i colloqui in tempi stretti e per rendere l’accordo il più profondo possibile. L’idea del TAFTA non è nuova, se ne parla dagli inizi degli anni ’90, ma si è ora arrivati ad un punto di svolta. Infatti l’ascesa dei BRICS comporta una non più rinviabile esigenza di rinsaldamento dell’alleanza della NATO su tutti i livelli, compreso quello economico.
Tra le nuove potenze emergenti è solo la Cina ad essere in grado, nel prossimo futuro,  di portare una sfida credibile alla supremazia nord-atlantica sotto tutti i punti di vista: economico, politico, demografico, militare, culturale e tecno-scientifico.  Le altre nazioni dei BRICS non le sono in alcun modo paragonabili, neanche l’India, che sconta deficit di potenza in moltissimi settori, per non parlare della Russia che si è solo da poco ripresa dal collasso sovietico.
L’ascesa della Cina non è una novità degli ultimissimi anni. Molte delle iniziative militari intraprese dagli USA durante l’amministrazione repubblicana di George W. Bush in Asia e nel Vicino Oriente si potevano già interpretare come una guerra indiretta contro la Cina. Con l’amministrazione democratica di Barack Obama la strategia di accerchiamento della Repubblica Popolare Cinese (“Pivot to Asia”) è diventata diretta (4), stringendo alleanze politico-militari con i paesi limitrofi come per esempio Filippine, Giappone, Australia, cercando di seminare discordia nelle relazioni sino-indiane (4 bis) e sino-vietnamite fino al tentativo di attirare la Birmania nella propria orbita.
La strategia di contenimento della Cina non si può limitare all’Asia, poiché il suo raggio di azione è planetario, dall’Africa (5) al Sud-America (6) all’Europa. Per Washington è pertanto prioritario coinvolgere in questa strategia anticinese anche le potenze europee, soprattutto perché una solida alleanza con l’Europa rimane la conditio sine qua non del proprio predominio planetario. Le nazioni europee appartenenti alla NATO, se da un punto di vista politico-militare sono già inquadrate ed “ingabbiate” all’interno dell’alleanza, da un punto di vista economico hanno, almeno sulla carta, la libertà di approfondire il legame con Pechino e i BRICS. Ma i rapporti economici, quando superano un certo volume e toccano certi settori strategici, diventano il volano per più strette relazioni politiche con il costituirsi di gruppi d’affari e di potere fortemente interessati al mantenimento di buone relazioni con i paesi non allineati con cui fanno affari e pertanto certi paesi NATO possano alla lunga diventare meno sensibili alle necessità degli schemi strategici atlantici. Gli Stati Uniti cercano di ostacolare l’intensificarsi di queste relazioni economiche soprattutto quando coinvolgono settori ad alta tecnologia (7). Quest’azione che prende di mira i paesi “alleati” che dimostrano un eccesivo e pericoloso grado di libertà economica con le nazione di volta in volta non allineate al potere nord-atlantico non è affatto nuova ma è anzi una costante della politica statunitense – l‘Italia l’ha sperimentata sulla propria pelle da decenni, da Enrico Mattei a  Bettino Craxi fino all’ultimo Silvio Berlusconi –  e si concretizza con le buone e le cattive maniere, provocando pesanti ricadute negative all’economia e al tessuto sociale dei paesi che cedono a queste pressioni (8).
L’opera di contenimento di Washington risulta particolarmente faticosa non solo per l’alto numero di paesi da tenere sotto controllo, ma soprattutto per il pluridecennale spostamento della produzione industriale dall’occidente all’Asia che ha esponenzialmente aumentato la potenza gravitazionale della Cina. La Repubblica Popolare Cinese ha saputo egregiamente gestire, nei decenni di impetuosa crescita economica, il proprio ordine sociale interno e mantenere la propria autonomia decisionale senza allinearsi alla politica internazionale nordatlantica. Ora che a cavalcare il processo di globalizzazione sono i BRICS, assistiamo all’emergere di misure politico-economiche occidentali volte a tenerle a debita distanza per non permettergli di penetrare a fondo nei tessuti socio-economi dei paesi NATO (9).
Il TAFTA è uno strumento che i circoli politici atlantisti di entrambe le sponde dell’oceano hanno elaborato per tenere le nazioni  europee ancorate a Washington e rappresenta un ulteriore “ingabbiamento” di questi paesi dentro i già stretti perimetri politico-militari dell’alleanza; le relazioni economiche verranno riorientare e incanalate verso l’indebitato e piccolo mercato americano mentre l’espansione verso il grande e dinamico mercato eurasiatico, nostro vicino di casa, imperniato sulla Russia e la Cina, dovrà essere contenuta.
“Rinserrare i ranghi” della NATO attraverso il TAFTA sarebbe un progetto inconcepibile se l’Unione Europea si sgretolasse sotto la crisi dell’euro. Gli Stati Uniti, fin dall’inizio della crisi della moneta unica – frutto delle decennali contraddizioni del processo di unificazione europea e della crisi dei mutui subprime –  sono stati fortemente impegnati a garantire la sopravvivenza dell’euro e dello status quo in Europa, una stabilità che fa da substrato indispensabile a quella militare della NATO. Una rottura della zona euro, come in un’esplosione, avrebbe gettato i paesi europei nelle braccia di Mosca e Pechino, e avrebbe consentito alla stessa Germania di muoversi in modo molto più autonomo sullo scenario internazionale, più libera dai vincoli euroatlantici, creando una contraddizione insolubile tra l’agenda strategica della NATO e gli interessi economici dei suoi paesi membri.
Gli Stati Uniti hanno bisogno che, in questo quadro di stabilità, gli europei si assumano il compito di garantire la sicurezza – in senso atlantista – del Mediterraneo e del Vicino Oriente, consentendo a Washington di avere le spalle coperte per concentrare il proprio potenziale in Asia.
L’Italia di Mario Monti e Giorgio Napolitano – in particolare quest’ultimo per il suo ruolo decisivo nella guerra contro la Jamahiriya di Gheddafi e nel defenestramento di Berlusconi – sono stati e sono tuttora gli strumenti indispensabili per la stabilità euroatlantica in Europa durante la crisi dell’euro, contribuendo in modo determinante ad evitare spaccature dell’area monetaria e quindi pericolose fughe incontrollate dei paesi europei  verso Russia e Cina,  tenendovi ancorata la Germania senza fornirgli pretesti per uscirne,  accontentando le sue richieste di austerità – contropartita per la propria permanenza nell’eurozona – e per traghettare infine la UE verso il TAFTA. La recente visita di Giorgio Napolitano negli Stati Uniti ne ha suggellato il ruolo di garante della stabilità euroatlantica in Italia e il ruolo di collante nello scenario europeo (10).
Il pericolo sulla stabilità della zona euro – e alla lunga di una sua possibile disintegrazione – rappresentato dagli squilibri economici europei e dalle politiche di austerità imposte dalla Germania sono ben presenti all’interno dei circoli atlantici, che attraverso le politiche monetarie di Mario Draghi hanno cercato di alleviare le spinte centrifughe della periferia insite in una simile politica economica. Ma la Germania alla fine ha dovuto momentaneamente cedere.
Anche la reprimenda dell’amministrazione Obama nei confronti dell’iniziativa referendaria di David Cameron (10 bis) frutto del plurisecolare orgoglio del proprio tradizionale alleato, si leggono non solo come la volontà di mantenere il “cavallo di Troia” inglese all’interno dei processi decisionali europei e di bilanciamento alla Germania, ma soprattutto come la volontà di non creare scossoni in Europa, di non favorire tendenze disgregatrice nel momento in cui gli USA vogliono recuperare forze,  “rinserrare i ranghi” con i propri alleati.
Sarà fondamentale il ruolo che assumerà la Germania in merito al TAFTA, dato il peso schiacciante che questa nazione è andata assumendo all’interno degli equilibri europei dalla sua riunificazione negli anni ‘90. Purtroppo i segnali che arrivano non sono incoraggianti. Anzi la Germania guidata da Angela Merkel, almeno dal 2007 pubblicamente fautrice di un accordo di libero scambio tra le due sponde dell’Atlantico (11), insieme alla Gran Bretagna, sono le nazioni che più spingono per il TAFTA e parlano apertamente di una NATO economica in funzione anticinese e per rinsaldare l’alleanza militare della NATO.
Anche se alcuni segnali che sono arrivati dalla Germania negli ultimi tempi sono contraddittori e lasciano trasparire una differenza di vedute nella classe dirigente tedesca -come per esempio il rifiuto alla fusione di EADS con BAE (12), il neutralismo sull’aggressione libica, la decisione di rimpatriare parte dell’oro depositato all’estero e alla FED, il lunghissimo braccio di ferro con Mario Draghi (Mr. Euro) e le sue politiche monetarie e gli incrementi nei volumi d’affari con Cina e Russia – dall’altra parte i segnali di accettazione da parte tedesca delle richieste statunitensi di una maggiore aderenza alle esigenze euroatlantiche non sono mancate. I rapporti con la Russia, dopo il ritorno di V. Putin, stanno attraversando un momento critico con segnali da parte della dirigenza tedesca di voler ridurre la dipendenza energetica con Mosca (13), in Asia la Germania si sta accodando agli Stati Uniti nella strategia politico-militare di accerchiamento alla Cina (14), la resa di fronte alle politiche monetarie di Mario Draghi e in ultimo il forte sostegno, almeno a parole, all’accordo del TAFTA.
La Germania sta forse cercando di rassicurare i propri interlocutori statunitensi sulla propria affidabilità e su come il proprio ruolo egemone in Europa sia compatibile con le esigenze della stabilità della comunità euroatlantica. Il compromesso raggiunto è però solo momentaneo. Alla lunga una situazione così sbilanciata in Europa non fornisce sufficienti garanzie a Washington per lo più di fronte alla riluttanza con la quale si è mossa e si sta muovendo la Germania di fronte alle proprie richieste.
La “questione tedesca” non è ancora pertanto definitivamente chiara e rimane aperta a scenari difficilmente prevedibili; il TAFTA sarà in questo senso un ottimo test per “stanare” le reali intenzioni della classe dirigente tedesca e scoprirne le già emergenti divergenze.
Più in generale, da come evolveranno i negoziati sul TAFTA sarà possibile comprendere meglio gli intenti politici e la distribuzione delle forze nei diversi paesi europei e in seno all’Unione Europea. Quest’ultima ha davanti a sé la possibilità di diventare definitivamente il docile cane da guardia americano ai confini dell’Eurasia – un po’ come il Giappone dall’altra parte del continente eurasiatico- guidato da una Germania rassegnata al proprio destino euroatlantico e sorvegliata dagli altri staterelli clienti come Gran Bretagna, Italia e Francia, in funzione antirussa ma soprattutto anticinese, oppure un soggetto geopolitico che – libero dai condizionamenti della Gran Bretagna e degli Stati Uniti d’America – si affranchi dalla NATO. Un “europeismo rivoluzionario” – per riprendere il titolo di un recente articolo apparso sul Corriere della Sera sull’ultimo libro di Sergio Romano in cui l’ex ambasciatore si auspica “come compito primario dell’Europa unita una svolta radicale in politica estera, cioè la proclamazione di una neutralità di tipo svizzero, la cui immediata conseguenza sarebbe la scelta di «congedare le basi americane» e sciogliere la Nato o tramutarla in qualcosa di profondamente diverso dall’alleanza che abbiamo conosciuto fino ad adesso” – un “europeismo rivoluzionario” con il quale l’Europa possa finalmente svincolarsi da Washington e guardare alle nazioni dei BRICS e dell’Eurasia, alla Repubblica Popolare Cinese, come a partner amici con cui edificare un futuro  armonioso e pacifico, e non come nazioni nemiche da combattere.

Michele Franceschelli
NOTE:
1. Si veda per esempio:  ACUSWashington Post2. Si veda per esempio: Spiegel
3. Eurasia4. Si veda per esempio: FASRUVRReuters
4 bis. Eurasia5. Si veda per esempio:   GuardianAurora
6 Si veda per esempio: ADN 7. Per esempio si veda:  Spiegel.de
8. StatoePotenza9. Si confronti la politica anti Gazprom dell’Unione Europea o le manovre italiane tese a contenere gli investimenti cinesi
10. “L’ospitalità nella Blair House, la forte simpatia personale di Barack e un’agenda di incontri che ha incluso gli altri due maggiori attori della politica estera – Joe Biden e John Kerry – sono la cornice che la Casa Bianca ha voluto per trasformare la visita di Giorgio Napolitano in un momento di riflessione su argomenti di rilievo nell’agenda del secondo mandato di Obama. Anzitutto c’è la volontà di sfruttare il negoziato Usa-Ue sulla «Transatlantic Trade and Investment Partnership» (Tafta) per arrivare ad un patto euroatlantico sulla crescita, spingendo anche la Germania su tale strada. Per riuscirci Obama ha bisogno di una forte convergenza con i leader dell’Unione europea e Napolitano è considerato, per le posizioni che esprime, un interlocutore prezioso a tale riguardo. La maggiore minaccia che incombe sulla “Tafta” è però un aggravamento della crisi dell’Eurozona dovuto all’indebolimento dei Paesi più a rischio: Spagna e Italia. Da qui l’interesse, espresso da Obama a Napolitano, per la transizione dal governo Monti al suo successore.”
LaStampa
10 bis. Guardian
11. TAFTA
12. William Pfaff
13. German-foreign-policy.com
14. German-foreign-policy.com15. Ariannaeditrice.it

Articolo originariamente pubblicato sul giornale on-line 'Stato e Potenza'

Sull'argomento vedi anche: 

TTIP/Tafta: la fine dell’Europa