Il monopolio degli Stati Uniti d’America nelle industrie high-tech e il ruolo subalterno dell’Italia e dell’Europa nella battaglia.
Alla presentazione dell’ottavo rapporto di Nomisma “Nomos & Kaos” del 2012 sulle prospettive economico-strategiche (1), il direttore generale di Finmeccanica Alessandro Pansa ha spiegato all’uditorio presente la vera e decisiva posta in ballo nella partita mondiale della crisi globale: la lotta per il mantenimento o la perdita d’interi comparti industriali high tech con il relativo know how tecnico-scientifico. Tra qualche anno secondo Pansa, alla fine della crisi iniziatasi nel 2008, sarà ridisegnata la divisione internazionale del lavoro, alcune nazioni oggi industrializzate si ritroveranno prive di interi comparti industriali, costrette a contare esclusivamente sui servizi, il turismo, la moda, la finanza e i settori a basso contenuto tecnologico dell’industria. La ristrutturazione mondiale in corso (la cosiddetta crisi) è una lotta senza esclusione di colpi tra le nazioni il cui bottino principale è rappresentato dal mantenimento e dall’accrescimento della propria potenza industriale, in particolare nei settori ad alta tecnologia, high tech, quelli che contano veramente per la potenza.
Questa lotta, così delineata dall’ad di Finmeccanica Pansa, s’inserisce all’interno di una più vasta competizione strategica mondiale tra diverse nazioni che si contendono l’egemonia, contestando quella odierna e planetaria degli USA.
La potenza è un insieme complesso di soft e hard-power, insieme alla disponibilità di risorse energetiche, alimentari, finanziarie, unita a fattori come l’industria, la demografia, la qualità genetica della popolazione, le infrastrutture, i servizi, le forze armate, le capacità politico-strategiche della classe dirigente etc.
Ma in ultimo, il fondamento della potenza, il nocciolo interno che sta alla base della forza, è rappresentato dal possesso dell’industria e del know how scientifico e tecnologico nei settori ad alta tecnologia, quelli high tech, che operano nei comparti strategici della difesa, dell’aerospazio, dell’elettronica, delle telecomunicazioni, delle nanotecnologie, della biotecnologia, della chimica, dei computer e dei software, della robotica, etc. Mantenere il predominio in questi settori, ed esserne all’avanguardia, è la questione prioritaria. Tutto il resto diventa secondario, uno strumento accessorio a questo nucleo della potenza. E sono pertanto questi settori la vera posta della contesa mondiale, come ha spiegato Pansa.
Questo discorso vale ovviamente solo per quelle nazioni la cui classe dominante mira al proprio sviluppo economico e quindi alla potenza, avendo una precisa volontà politica in tal senso, oltre ai prerequisiti numerici di base; o per paesi che quantomeno puntano a contenere la sfera d’influenza degli USA attraverso la costruzione di poli alternativi, soprattutto se non hanno i numeri sufficienti per controbilanciare da soli e direttamente la potenza egemone. Il problema neanche si pone per quelle nazioni la cui classe dominante, per scelta o per forza, si accontenta del quieto vivere (del “burro”) a rimorchio di una grande potenza; altre nazioni di media grandezza possono giostrare tra vari poli e varie aree di influenza trattando la propria adesione a questo o quel campo cercando di tutelare il più possibile i propri interessi e il proprio status politico-economico.
Le nazioni potenzialmente in grado di contrastare la forza egemonica degli USA nel XXI secolo sono la Russia, la Germania, la Cina, il Brasile, l’India, attorno a cui possono orbitare e coagularsi in alleanze variamente definite un certo numero di nazioni.
I prerequisiti per la nascita e l’affermazione, in una nazione, d’industrie ad alta tecnologia sono l’appoggio e la difesa del governo centrale di questi settori cruciali, con grandi programmi e stanziamenti per la ricerca e lo sviluppo (R&S) nella scienza e nella tecnologia, in collaborazione con le università, le scuole, le imprese e l’esercito.
La storia economica insegna che la maggior parte di queste industrie high tech nasce nel contesto di programmi apertamente militari (o mascherati da programmi civili con la produzione di tecnologie dual-use); quando queste industrie raggiungono una stazza tale da consentirle una sopravvivenza autonoma – se non un aperto dominio- nel mercato regionale e/o mondiale, continuano comunque ad operare in sinergia con il proprio governo, per quanto questo si professi estraneo alla sfera economica e ufficialmente liberista.
Tutto questo è “Big Science”, una prassi che ha trovato il suo battesimo negli USA – e là continua ad avere la sua più completa realizzazione – con il progetto Manhattan della seconda guerra mondiale.
E’ solo all’interno della “Big Science” che può crescere la “Small Science” e trovare terreno fertile lo sviluppo economico, e non la semplice crescita economica che è un dato puramente quantitativo e non qualitativo che non tiene conto delle caratteristiche profonde e decisive di una determinata economia.
Per valutare la bilancia della potenza a livello mondiale e la contesa in atto di cui parlava Pansa, bisogna quindi guardare al nocciolo, oltre la cortina fumogena dei tecnicismi finanziari ed economici su cui si concentrano e si scannano a non finire noiosi accademici, guru e complottisti.
Al di là delle eterne e inconcludenti discussioni su inflazione e deflazione, volume di debito e deficit, pil e spread, tassi di interesse e valore delle azioni di borsa, rigore e spesa, teoremi di Keynes e di Smith, interventismo e liberismo, nazionalizzazione o privatizzazione, etc., il punto centrale è che il cuore della potenza è rappresentato dal pragmatico possesso, dalla capacità di fare sistema e dal controllo (diretto o indiretto, al di là dei formalismi giuridici ed ideologici) delle industrie operanti nei settori high-tech, quelle realmente decisive per lo sviluppo economico e il primato militare, da parte del ceto dirigente politico di una nazione.
Quello che alla fine conta, al di là dalle chiacchiere, è il “ferro”, la forza dell’alta tecnologia e non la “carta” delle banconote e “l’aria fritta” delle ideologie economiciste e finanziarie. Il mondo, per riprendere la citazione iniziale di Archimede, non si solleva con la carta e la fuffa di certe ideologie, ma con il progresso delle conoscenze scientifiche e tecnologiche, sempre in continuo divenire.
Le nazioni che meglio sanno sviluppare le potenzialità della scienza e della tecnica attraverso la “Big Science” sono anche quelle che godono automaticamente anche del maggior soft -power, essendo il progresso tecnico e scientifico la chiave di volta per il miglioramento delle condizioni economiche e materiali della vita dei popoli e quindi un simbolo di efficienza, capacità di un sistema-paese e del benessere, delle opportunità e dei sogni che può offrire alle aspirazioni degli individui.
Chi non tiene conto di quanto fin qui detto non afferra l’essenziale e si ferma alla superficie non cogliendo l’andamento della contesa mondiale.
Il parametro di valutazione della potenza basato sul possesso delle industrie high-tech vale per gli USA come per il resto del mondo.
Gli Usa, a 5 anni dalla crisi dei mutui subprime – una crisi puramente finanziaria – e dopo una fase decennale di overstretching, mantengono il loro predominio globale high-tech. Possono avere un debito superiore al 140% del loro pil, inondare l’economia domestica e mondiale di carta con inchiostro chiamato dollaro (il cui valore è legato alla fiducia che vi ripone chi lo compra e lo accetta), avere un alto deficit e una bilancia commerciale in passivo, avere fortissime disuguaglianze al proprio interno e un pil altalenante… ma al nocciolo gli USA non solo sono ancora la nazione manifatturiera più grande del mondo, ma mantengono anche un primato indiscusso nelle industrie high tech, quelle che contano per la potenza.
Democratici e Repubblicani gettano la maschera delle loro differenti ideologie quando si tratta di difendere questi settori. Qualsiasi fine farà la “carta” stampata o virtuale rappresentata dal dollaro (una carta che sarebbe capace di stampare anche un uomo del ‘600) e la cui sorte è legata a convenzioni internazionali che gli stessi USA (vedi il precedente di Nixon con l’abbandono del “gold standard”) possono unilateralmente lasciare quando vogliono, il “ferro” dell’alta tecnologia rimane sul territorio statunitense, senza essere delocalizzato, e continua a dominare su buona parte del mondo.
Se le industrie di fascia bassa, quelle cioè a basso contenuto tecnologico (di bassa qualità) come l’abbigliamento, i giocattoli, e altre semplici produzioni e assemblaggi hanno abbandonato il territorio statunitense scivolando all’estero, altre industrie americane di fascia media come quelle per esempio delle automobili (Ford e General Motors) e delle macchine edili (Caterpillar), pur nella dura competizione mondiale, sono state difese e hanno resistito guadagnando quote di mercato e mantenendo gli stabilimenti produttivi principali in patria. Netta è poi stata la propulsione e lo sviluppo impresso dal ceto politico ai settori high-tech e la loro difesa da qualunque tipo di scalata ostile in nome dell’interesse nazionale, impedendo la loro delocalizzazione all’estero, mantenendo il know-how e la produzione qualificata sul territorio statunitense.
Molte aziende high-tech americane operano nel comparto della difesa, ed è nota la forza del complesso militare industriale USA fin dalle celebri dichiarazioni di Eisenhower. Nella top ten mondiale delle industrie del settore ben otto sono americane tra cui la Boeing, la Lockheed Martin, Northrop Grumman, la General Dynamics, Raytheon, l’United Technologies e General Electric; solo la paneuropea EADS riesce a tenervi testa collocandosi in seconda posizione; mentre BAE SYSTEMS, pur essendo inglese di nome, è praticamente una propaggine statunitense.
Per farsi un’idea delle dimensioni di Boeing e Lockheed, queste aziende sono due volte ciascuna Finmeccanica per numero di dipendenti, che pure è punta di diamante del sistema industriale italiano, ed hanno dei fatturati 3-4 volte più grandi.
Gli USA dominano così il settore delle esportazioni mondiali degli armamenti; non sono semplici armi come pistole e fucili (come la maggior parte delle esportazioni belliche italiane), ma strumenti e sistemi difensivi ed offensivi altamente high tech e sempre aggiornati, di cui i compratori dipenderanno dall’assistenza statunitense per il loro mantenimento in funzione (2).
Solo i russi riescono a tenervi testa, con aziende come la Almaz-Antey, la United Aircraft Corporation e la Sukhoj; non per niente la nazione di Putin rimane uno degli ostacoli maggiori alle mire globali statunitensi (vedi il recente caso della Siria).
Tutte le altre nazioni inseguono i vecchi protagonisti della Guerra Fredda, compresa la Cina.
E’ nel contesto della ricerca militare che operano la maggior parte degli scienziati e dei tecnici a livello mondiale. E’ pertanto all’interno dei programmi multimiliardari a scopo militare di Washington che gli USA si assicurano non solo la superiorità bellica ma anche la generazione d’invenzioni e innovazioni scientifiche e tecnologiche che consentono di dare spinta propulsiva alla propria economia nazionale.
Nell’era dell’information war e dell’importanza decisiva del controllo dei computer, delle comunicazioni e del cyberspazio nelle operazioni militari (C4I: comando, controllo, comunicazioni, computer e intelligence) il confine tra civile e militare si va sempre più assottigliando, in particolare per quelle aziende che operano nel settore dell’Information Technology (IT).
Anche in questo settore dell’IT la potenza USA è fondata su colossi aziendali che operano nei computer e nell’elettronica, producendo software ed hardware all’avanguardia.
Al di là dei giganti di internet come Apple, Google, Microsoft e Amazon, la vera bestia statunitense è l’IBM, all’avanguardia nella ricerca sui semiconduttori, microprocessori, chip, software, hardware e con una posizione dominante sul mercato mondiale, con più di quattrocentomila dipendenti, per il ventesimo anno consecutivo il numero uno nel deposito di brevetti statunitensi (mentre in Europa è la tedesca Bosch, che però opera in settori a più basso contenuto tecnologico e meno strategici; seguita da Siemens) scoperte che consentiranno progressi in domini chiave tra cui l’analisi, il Big Data, la sicurezza informatica, il cloud, le telecomunicazioni, i software, aprendo l’era informatica dei sistemi cognitivi.
Il gigantismo USA, tanto criticato dai romanticoni della vecchia Italia a cui piace tanto il “piccolo è bello”, è in verità la vera arma che consente a questi colossi di investire ogni anno miliardi di dollari in R&S e di battere e dominare i rivali disponendo di immensi laboratori all’avanguardia e pagando profumatamente il fiore degli scienziati e dei tecnici a livello mondiale.
Ma poi ci sono altri giganti IT a stelle e strisce come HP, Intel, Amd, Dell, Oracle, Qualcomm, Cisco, etc. La lista potrebbe continuare ancora e in questo settore neanche i russi riescono a tenervi testa.
In Europa non esiste un concorrente che possa tenere il passo con la più piccola di queste aziende, forse in Germania solo la SAP è di una stazza tala da poter competere con le ultime in classifica, anche se ha sviluppato un know-how molto specifico su determinati software; in Italia, dopo la distruzione dell’Olivetti negli anni’60-70, non esistono industrie nell’IT degne di essere citate in questo contesto, neanche l’italo-francese STMicroelectronics può esserlo. Il gap con gli USA è troppo grande.
Gli Stati Uniti sono dei monstre anche nel settore strategico dell’energia, con alcune delle vecchie “sorelle” come Exxon Mobil, Chevron, ConocoPhilips; poi ancora con le industrie del settore elettrico e nucleare (ricordiamo che gli USA hanno il maggior numero di centrali nucleari del mondo, più di cento) con General Electric, Westinghouse, General Atomics, Exelon, United States Enrichment Corporation.
In Europa ci sono grandi compagnie con una potenza simile a quelle statunitensi, pensiamo alla Siemens e E.ON tedesche o alla Total, EDF, Areva e Alstom francesi; anche in Italia sono rimaste due ultime grandi compagnie oltre a Finmeccanica, che operano in questi settori, che sono Eni ed Enel.
Gli USA sono poi fortissimi nel settore strategico delle telecomunicazioni con colossi come AT&T e Verizon. Anche in questo caso solo la tedesca Deutsche Telekom e la francese France Telecom hanno la stazza per tenere il passo. Non parliamo nemmeno a come si è ridotta la “nostra” Telecom, smidollata dalle privatizzazioni degli anni ’90 e azzoppata dal contesto politico italiano dell’ultimo ventennio.
In USA rimane fortissimo il settore (dual-use) delle biotecnologie, della chimica, della farmaceutica con colossi come Johnson & Johnson, Pfizer, Abbott Laboratories, Bristol Myers Squibb, Amgen, E I Du Pont de Nemours, Eli Lilly, Monsanto.
In questi settori in Europa tengono la Germania e la Svizzera, con Bayer, BASF, Novartis mentre in Italia è rimasto poco o niente di paragonabile dopo l’affossamento di Enimont d’inizio anni ’90.
In USA c’è poi il comparto alimentare, anch’esso strategico, con Kraft, la seconda azienda alimentare più grossa del mondo dopo la svizzera Nestlè. Gli Stati Uniti controllano poi quasi la metà delle esportazioni mondiali di grano e mais, sfruttando le vaste estensioni di terra disponibili e utilizzando una tecnologia agroalimentare avanzata che non si fa fermare dalle fobie ecologiste.
Tra i settori strategici, per ultimo, anche quello dei media, la nota industria di Hollywood, che non ha eguali al mondo, con colossi come Time Warner, Walt Disney, Viacom, News Corporation, etc. che dominano tutto lo spettro delle tecniche della comunicazione mass-mediale. In Europa non esiste niente di paragonabile.
Alla base di queste grandi industrie statunitensi c’è un sistema di educazione che – privato o pubblico che sia – continua a custodire l’eccellenza e a trasmettere il meglio del know how a livello mondiale, in ovvia sinergia con il governo e i colossi aziendali più sopra riportati, avendo le migliori infrastrutture, laboratori per la ricerca e corpo docente.
Stando al report Quacquarelli Symonds (QS) del 2013, nei settori tecnici e scientifici – dall’ingegneria all’elettronica, dalla fisica alla chimica, dalla medicina alla biologia – a dominare sono sempre un gruppo di università statunitensi come il Massachusetts Institute of Technology (MIT), la Stanford University, la Carnegie Mellon University, la University of California, la Berkeley (UCB) e la Harvard University.
La prima università italiana è quella bolognese, in 188° posizione…
Arriviamo così all’Italia e all’Europa. Quest’ultima, nel suo complesso, sarebbe il concorrente numero uno degli Stati Uniti d’America, i quali ne sono ben consapevoli (non c’era certo bisogno delle rivelazioni di Snowden per sapere che la UE è oggetto di una costante opera di spionaggio da parte degli “alleati” americani); ma per fare veramente paura a Washington, l’Europa dovrebbe divenire un blocco continentale politicamente autonomo e industrialmente ed economicamente coeso, non un’istituzione di cartapesta con una moneta senza capo né coda, un insieme posticcio di nazioni che la trasformano in un “pollaio nazionalistico” di cui la contesa sull’euro è solo uno dei molteplici e tragicomici aspetti.
L’industria dell’economia europea – anche quella high-tech – risulta per lo più frammentata tra le diverse e rivali capitali e gruppi. Così è difficile se non impossibile tenere il passo con i giganti statunitensi più sopra elencati; neanche la Germania da sola ha i numeri e la forza per tenervi testa; figuriamoci l’Italia.
Infatti, oltre ad un sistema educativo ormai al collasso – con poche eccellenze in mezzo a tanti palazzi antiquati e ammuffiti e con una bolla umanistica gonfiata sconsideratamente negli ultimi decenni – all’interno del perimetro nazionale italiano sono rimaste pochissime aziende di grandi dimensioni che operano nei settori high tech e strategici: praticamente solo ENI, ENEL, Finmeccanica, e molto più indietro Telecom e Fincantieri. Ma di certo queste sono piccola cosa se paragonate alle bestie USA. Soprattutto, senza una politica di “Big Science”, il loro destino è segnato, insieme a quello dell’economia nazionale italiana. Sessant’anni di subordinazione politica e geoeconomica agli Stati Uniti hanno ormai quasi definitivamente privato il nostro paese d’industrie attive nei settori high tech e ridotto la classe politica italiana ad un insieme di smidollati e pagliacci che in nome del deficit, dei parametri dell’euro e della “carta”, sono disposti a sacrificare il “ferro”, interi comparti industriali medi e soprattutto high-tech. Tutto il contrario di quello che fanno gli USA, come abbiamo visto, o di quello che fanno i francesi e i tedeschi.
Per invertire la rotta bisognerebbe dotarsi di un ceto dirigente sovranista ed europeista in senso forte che smascheri quello euroatlantico, annichilendo tanto le correnti culturali domestiche decrescetiste, tecnofobe, antiscientifiche, romantiche e primitiviste – vero cancro del paese che l’hanno infettato alle radici – tanto quanto quelle politiche piccolo-nazionali ed atlantiste .
Ma anche se, nella più ottimistica delle previsioni, ciò dovesse accadere, l’Italia da sola non avrebbe i numeri per fare una politica di sviluppo (e potenza) sostenibile; nell’era dei continenti e dei grandi spazi, l’Italia da sola non può fare “Big Science” e competere con quei giganti aziendali che stanno alla base del dominio USA. Nel XXI secolo ci vuole stazza continentale ed è pertanto necessaria una stretta alleanza con uno o più delle potenze nazionali vicine, siano queste la Francia, la Germania o la Russia. E’ indispensabile una scelta paneuropea dell’industria high-tech italiana, che passi attraverso la fusione dei diversi comparti nazionali europei, avendo la forza di contrattare un accorpamento che tuteli il più possibile gli interessi della nostra popolazione. Alla radice ci deve essere una condivisa scelta politica di creazione di un blocco continentale autonomo dagli USA.
I più brillanti esempi di “Big science” a livello europeo sono il CERN di Ginevra (l’Organizzazione Europea per la Ricerca Nucleare), l’ESA (l’Agenzia Spaziale Europea) ed EADS (la già più volte citata European Aeronautic Defence and Space Company); ma mentre nei primi due è stata ed è determinante la partecipazione italiana, nel terzo, per ragioni geoeconomiche dovute alle pressioni statunitense - e a calcoli piccolo-nazionali dei circoli italiani - l’Italia ne è rimasta estranea per mettere i bastoni tra le ruote alla costituzione di un nocciolo di una azienda europea della difesa.
In Europa la vera potenza, solo teorica perché ancora priva di una precisa volontà politica in tal senso, è la Germania. E lo è per tante ragioni ma in particolare per la presenza di aziende strategiche di grandi dimensioni come i già sopraccitati EADS, Siemens, BASF, Bayer, Deutsche Telekom, E.ON, SAP, Infineon, etc., che fanno sistema con il ceto politico nazionale e il sistema educativo (le migliore università europee, per QS, sono tedesche, se si eccettuano quelle inglesi). Insieme a queste industrie high-tech è fortissima l’industria media, con colossi automobilistici e metalmeccanici. Ma rispetto alla varietà e alla dimensione dei giganti statunitensi anche la Germania rimpicciolisce; soprattutto poi è la sua classe dirigente a non avere ancora le idee chiare su quale strada intraprendere. La Germania avrebbe i numeri per essere una potenza di riferimento nel blocco europeo ma è titubante e gli altri paesi europei sono impauriti e gelosi delle proprie prerogative nazionali, in particolare la Francia.
I gruppi dominati tedeschi non osano ancora prendere il toro per le corna dell’attuale subordinazione geopolitica e geoconomica europea agli Usa e del progetto di cartapesta dell’attuale Unione Europea, un gigante con i piedi d’argilla. E’ pertanto ancora tutto da vedere quanto i dirigenti tedeschi siano intenzionati a dare impulso a determinati settori high tech della propria economia nazionale arrivando a scontrarsi con quelli USA (in particolare nell’IT e nella difesa) e a spingere quindi per la nascita di colossi strategici paneuropei sotto la propria guida, oppure a cercare una forma di coesistenza pacifica e subordinata con gli USA attraverso una rinnovata forma di complementarietà tra le proprie economiche facendo al contempo tabula rasa dei rivali intraeuropei.
Nel pollaio nazionalistico europeo ogni nazione cerca di fare le scarpe all’altra dalla propria posizione di forza all’interno della costruzione dell’euro e dei suoi parametri, dei giochetti politici e finanziari a Bruxelles e Francoforte. I tedeschi, CDU e SPD indifferentemente, cavalcano il “rigore” perché si trovano in una posizione di forza.
Dietro la crisi della moneta unica, riprendendo quello che diceva Pansa, dietro ai giochi finanziari dello spread e delle altalene di borsa, si nasconde la battaglia per il ridisegno della geografia industriale europea e dei rapporti di forza tra le diverse nazioni, che pendono sempre più verso la Germania. Questo non è necessariamente un male se si ragiona in ottica continentale, com’è necessario fare per le ragioni sopraddette; l’unico modo infatti perché si possa superare il pollaio nazionalistico europeo in corso è che si crei un nucleo talmente forte all’interno della UE capace di attrarre, con le buone o con le cattive, tutte gli altri a sé, senza le estenuanti e inconcludenti contrattazioni che si verificano nella condizione di parità di forze. E il nucleo forte che si va formando è quello mitteleuropeo guidato dalla nazione tedesca.
Un’Italia guidata da un gruppo dirigente sovranista ed europeista forte, dovrebbe però chiedere alla Germania (e in subordine alla Francia) di giocare allo scoperto e mettere le carte sul tavolo per capire se vale veramente la pena di puntare ad un’aggregazione paneuropea attorno al nucleo tedesco, e magari poi aiutarla e fiancheggiarla in questo duro percorso che preveda la creazione di un reale blocco continentale, con una vera unificazione dotata di un esercito europeo, di un bilancio comune, di una “Big Science” comune, di una politica estera ed economica autonoma dagli USA.
Con l’inizio del nuovo mandato di Angela Merkel, con le contrattazione sul TAFTA che stanno per partire, con le decisioni del nuovo management di Siemesns e tanti altri segnali, si riuscirà a stanare meglio le reali intenzioni della Germania.
Ma è certo che ad aiutare o addirittura a pretendere dalla nazione tedesca non può essere la “puttana” atlantica che dall’8 settembre del ’43 – e ancora più negli ultimi vent’anni – siamo soliti chiamare Italia, cavallo di troia statunitense nell’Unione Europea tanto quanto la Gran Bretagna.
Oggi infatti il compito dell’Italia di Re Giorgio - portavoce di Obama – e di Mario Draghi – portavoce della finanza anglosassone - è quello di marcare stretto la Germania e di mantenerla nel percorso di un’architettura istituzionale europea inconcludente e totalmente permeata dalle intromissione atlantiche, e di farne da contrappeso in seno a questa stessa Unione per mantenerla costantemente paralizzata.
Rebus sic stantibus, i tedeschi e gli altri europei avrebbero tutte le ragioni per saccheggiare una nave alla deriva - piena di traditori ed opportunisti, bordello della CIA - come l’Italia; anzi, per gli italiani potrebbe anche essere un fatto positivo perché capace di scombussolare gli asseti di potere dei circoli atlantici di Roma e Milano. Una nuova discesa in Italia dei lanzichenecchi per fare quella pulizia che gli italiani non paiono in grado di fare da soli.
L’eventuale ingresso dei francesi e altri europei, e ancor più dei tedeschi, in alcune industrie high tech italiane (direttamente o attraverso l’acquisizione di determinati asset bancari ed assicurativi) potrebbe essere visto con sospetto dalle parti di Washington e come un’intromissione nella propria area di pertinenza.
Un ulteriore rafforzamento del sistema industriale tedesco infatti, con l’inglobamento di quello italiano, creerebbe poi un mostre europeo e uno squilibrio della bilancia interno all’Unione pericoloso per chi teme, come gli USA, un’accelerazione nella costituzione di un reale blocco europeo attorno ad un nucleo duro, la premessa indispensabile – come abbiamo già detto - per superare le altrimenti infinite ed inconcludenti contrattazioni dei ministri della UE su come far procedere la costruzione europea.
E’ per questo che sarà molto improbabile che, preannunciata dal tour “Destinazione Italia” di Enrico Letta, certe aziende strategiche italiane finiscano in mano - o anche solo vedano un aumento dell’azionariato – di gruppi tedeschi, ma è molto più probabile che finiscano per trovare capitali e acquirenti anglosassoni o di qualche paese satellite asiatico e mediorientale (Qatar, Sud-Corea, Giappone, etc). Dopotutto Letta va a New York e a Doha, non a Francoforte.
Se capitali ed acquirenti dotati di “nulla osta di sicurezza” non si trovano, si farà di tutto sia per garantire l’italianità di certe industrie high-tech - già sotto il stretto controllo dell’apparato atlantico – piuttosto che correre il rischio di farle cadere nelle mani sbagliate (siano queste tedesche, russe, cinesi o fors’anche spagnole) sia di indebolire ed inibire altre aziende strategiche guidate da management meno controllabili e più propensi ad instaurare pericolose relazioni industriali con paesi estranei all’orbita all’occidentale; la nomina di De Gennaro (uomo USA) a capo di Finmeccanica è esemplificativa della necessità di tenere sotto stretto controllo le grande azienda italiana del settore dell’aerospazio in un momento molto delicato della contesa mondiale.
Dal discorso pronunciato da Pansa all’inizio dell’ottobre del 2012 è passato quasi un anno e la resa dei conti si avvicina sempre di più, come ha dimostrato il recente caso Telecom.
Tra poco sarà il turno di Ansaldo Energia, mentre all’orizzonte gli ultimi grandi incroci della lotta sono ENI, Enel e la stessa Finmeccanica. Se vogliamo che nei cieli della nostra terra risplenda un barlume di dignità e di patriottismo europeo; se vogliamo che tra le sue valli rimbombi di nuovo dieci e cento volte “Eureka” - la gioia della scoperta e l’orgoglio del progresso tecnico e scientifico oggi possibile solo con la “Big Science” e con la stazza continentale - facciamo i conti, hic et nuc, con l’occupante a stelle e strisce e liberiamoci da una classe dirigente che sembra saper dire solo: “Yes, Sir”.
Questa lotta, così delineata dall’ad di Finmeccanica Pansa, s’inserisce all’interno di una più vasta competizione strategica mondiale tra diverse nazioni che si contendono l’egemonia, contestando quella odierna e planetaria degli USA.
La potenza è un insieme complesso di soft e hard-power, insieme alla disponibilità di risorse energetiche, alimentari, finanziarie, unita a fattori come l’industria, la demografia, la qualità genetica della popolazione, le infrastrutture, i servizi, le forze armate, le capacità politico-strategiche della classe dirigente etc.
Ma in ultimo, il fondamento della potenza, il nocciolo interno che sta alla base della forza, è rappresentato dal possesso dell’industria e del know how scientifico e tecnologico nei settori ad alta tecnologia, quelli high tech, che operano nei comparti strategici della difesa, dell’aerospazio, dell’elettronica, delle telecomunicazioni, delle nanotecnologie, della biotecnologia, della chimica, dei computer e dei software, della robotica, etc. Mantenere il predominio in questi settori, ed esserne all’avanguardia, è la questione prioritaria. Tutto il resto diventa secondario, uno strumento accessorio a questo nucleo della potenza. E sono pertanto questi settori la vera posta della contesa mondiale, come ha spiegato Pansa.
Questo discorso vale ovviamente solo per quelle nazioni la cui classe dominante mira al proprio sviluppo economico e quindi alla potenza, avendo una precisa volontà politica in tal senso, oltre ai prerequisiti numerici di base; o per paesi che quantomeno puntano a contenere la sfera d’influenza degli USA attraverso la costruzione di poli alternativi, soprattutto se non hanno i numeri sufficienti per controbilanciare da soli e direttamente la potenza egemone. Il problema neanche si pone per quelle nazioni la cui classe dominante, per scelta o per forza, si accontenta del quieto vivere (del “burro”) a rimorchio di una grande potenza; altre nazioni di media grandezza possono giostrare tra vari poli e varie aree di influenza trattando la propria adesione a questo o quel campo cercando di tutelare il più possibile i propri interessi e il proprio status politico-economico.
Le nazioni potenzialmente in grado di contrastare la forza egemonica degli USA nel XXI secolo sono la Russia, la Germania, la Cina, il Brasile, l’India, attorno a cui possono orbitare e coagularsi in alleanze variamente definite un certo numero di nazioni.
I prerequisiti per la nascita e l’affermazione, in una nazione, d’industrie ad alta tecnologia sono l’appoggio e la difesa del governo centrale di questi settori cruciali, con grandi programmi e stanziamenti per la ricerca e lo sviluppo (R&S) nella scienza e nella tecnologia, in collaborazione con le università, le scuole, le imprese e l’esercito.
La storia economica insegna che la maggior parte di queste industrie high tech nasce nel contesto di programmi apertamente militari (o mascherati da programmi civili con la produzione di tecnologie dual-use); quando queste industrie raggiungono una stazza tale da consentirle una sopravvivenza autonoma – se non un aperto dominio- nel mercato regionale e/o mondiale, continuano comunque ad operare in sinergia con il proprio governo, per quanto questo si professi estraneo alla sfera economica e ufficialmente liberista.
Tutto questo è “Big Science”, una prassi che ha trovato il suo battesimo negli USA – e là continua ad avere la sua più completa realizzazione – con il progetto Manhattan della seconda guerra mondiale.
E’ solo all’interno della “Big Science” che può crescere la “Small Science” e trovare terreno fertile lo sviluppo economico, e non la semplice crescita economica che è un dato puramente quantitativo e non qualitativo che non tiene conto delle caratteristiche profonde e decisive di una determinata economia.
Per valutare la bilancia della potenza a livello mondiale e la contesa in atto di cui parlava Pansa, bisogna quindi guardare al nocciolo, oltre la cortina fumogena dei tecnicismi finanziari ed economici su cui si concentrano e si scannano a non finire noiosi accademici, guru e complottisti.
Al di là delle eterne e inconcludenti discussioni su inflazione e deflazione, volume di debito e deficit, pil e spread, tassi di interesse e valore delle azioni di borsa, rigore e spesa, teoremi di Keynes e di Smith, interventismo e liberismo, nazionalizzazione o privatizzazione, etc., il punto centrale è che il cuore della potenza è rappresentato dal pragmatico possesso, dalla capacità di fare sistema e dal controllo (diretto o indiretto, al di là dei formalismi giuridici ed ideologici) delle industrie operanti nei settori high-tech, quelle realmente decisive per lo sviluppo economico e il primato militare, da parte del ceto dirigente politico di una nazione.
Quello che alla fine conta, al di là dalle chiacchiere, è il “ferro”, la forza dell’alta tecnologia e non la “carta” delle banconote e “l’aria fritta” delle ideologie economiciste e finanziarie. Il mondo, per riprendere la citazione iniziale di Archimede, non si solleva con la carta e la fuffa di certe ideologie, ma con il progresso delle conoscenze scientifiche e tecnologiche, sempre in continuo divenire.
Le nazioni che meglio sanno sviluppare le potenzialità della scienza e della tecnica attraverso la “Big Science” sono anche quelle che godono automaticamente anche del maggior soft -power, essendo il progresso tecnico e scientifico la chiave di volta per il miglioramento delle condizioni economiche e materiali della vita dei popoli e quindi un simbolo di efficienza, capacità di un sistema-paese e del benessere, delle opportunità e dei sogni che può offrire alle aspirazioni degli individui.
Chi non tiene conto di quanto fin qui detto non afferra l’essenziale e si ferma alla superficie non cogliendo l’andamento della contesa mondiale.
Il parametro di valutazione della potenza basato sul possesso delle industrie high-tech vale per gli USA come per il resto del mondo.
Gli Usa, a 5 anni dalla crisi dei mutui subprime – una crisi puramente finanziaria – e dopo una fase decennale di overstretching, mantengono il loro predominio globale high-tech. Possono avere un debito superiore al 140% del loro pil, inondare l’economia domestica e mondiale di carta con inchiostro chiamato dollaro (il cui valore è legato alla fiducia che vi ripone chi lo compra e lo accetta), avere un alto deficit e una bilancia commerciale in passivo, avere fortissime disuguaglianze al proprio interno e un pil altalenante… ma al nocciolo gli USA non solo sono ancora la nazione manifatturiera più grande del mondo, ma mantengono anche un primato indiscusso nelle industrie high tech, quelle che contano per la potenza.
Democratici e Repubblicani gettano la maschera delle loro differenti ideologie quando si tratta di difendere questi settori. Qualsiasi fine farà la “carta” stampata o virtuale rappresentata dal dollaro (una carta che sarebbe capace di stampare anche un uomo del ‘600) e la cui sorte è legata a convenzioni internazionali che gli stessi USA (vedi il precedente di Nixon con l’abbandono del “gold standard”) possono unilateralmente lasciare quando vogliono, il “ferro” dell’alta tecnologia rimane sul territorio statunitense, senza essere delocalizzato, e continua a dominare su buona parte del mondo.
Se le industrie di fascia bassa, quelle cioè a basso contenuto tecnologico (di bassa qualità) come l’abbigliamento, i giocattoli, e altre semplici produzioni e assemblaggi hanno abbandonato il territorio statunitense scivolando all’estero, altre industrie americane di fascia media come quelle per esempio delle automobili (Ford e General Motors) e delle macchine edili (Caterpillar), pur nella dura competizione mondiale, sono state difese e hanno resistito guadagnando quote di mercato e mantenendo gli stabilimenti produttivi principali in patria. Netta è poi stata la propulsione e lo sviluppo impresso dal ceto politico ai settori high-tech e la loro difesa da qualunque tipo di scalata ostile in nome dell’interesse nazionale, impedendo la loro delocalizzazione all’estero, mantenendo il know-how e la produzione qualificata sul territorio statunitense.
Molte aziende high-tech americane operano nel comparto della difesa, ed è nota la forza del complesso militare industriale USA fin dalle celebri dichiarazioni di Eisenhower. Nella top ten mondiale delle industrie del settore ben otto sono americane tra cui la Boeing, la Lockheed Martin, Northrop Grumman, la General Dynamics, Raytheon, l’United Technologies e General Electric; solo la paneuropea EADS riesce a tenervi testa collocandosi in seconda posizione; mentre BAE SYSTEMS, pur essendo inglese di nome, è praticamente una propaggine statunitense.
Per farsi un’idea delle dimensioni di Boeing e Lockheed, queste aziende sono due volte ciascuna Finmeccanica per numero di dipendenti, che pure è punta di diamante del sistema industriale italiano, ed hanno dei fatturati 3-4 volte più grandi.
Gli USA dominano così il settore delle esportazioni mondiali degli armamenti; non sono semplici armi come pistole e fucili (come la maggior parte delle esportazioni belliche italiane), ma strumenti e sistemi difensivi ed offensivi altamente high tech e sempre aggiornati, di cui i compratori dipenderanno dall’assistenza statunitense per il loro mantenimento in funzione (2).
Solo i russi riescono a tenervi testa, con aziende come la Almaz-Antey, la United Aircraft Corporation e la Sukhoj; non per niente la nazione di Putin rimane uno degli ostacoli maggiori alle mire globali statunitensi (vedi il recente caso della Siria).
Tutte le altre nazioni inseguono i vecchi protagonisti della Guerra Fredda, compresa la Cina.
E’ nel contesto della ricerca militare che operano la maggior parte degli scienziati e dei tecnici a livello mondiale. E’ pertanto all’interno dei programmi multimiliardari a scopo militare di Washington che gli USA si assicurano non solo la superiorità bellica ma anche la generazione d’invenzioni e innovazioni scientifiche e tecnologiche che consentono di dare spinta propulsiva alla propria economia nazionale.
Nell’era dell’information war e dell’importanza decisiva del controllo dei computer, delle comunicazioni e del cyberspazio nelle operazioni militari (C4I: comando, controllo, comunicazioni, computer e intelligence) il confine tra civile e militare si va sempre più assottigliando, in particolare per quelle aziende che operano nel settore dell’Information Technology (IT).
Anche in questo settore dell’IT la potenza USA è fondata su colossi aziendali che operano nei computer e nell’elettronica, producendo software ed hardware all’avanguardia.
Al di là dei giganti di internet come Apple, Google, Microsoft e Amazon, la vera bestia statunitense è l’IBM, all’avanguardia nella ricerca sui semiconduttori, microprocessori, chip, software, hardware e con una posizione dominante sul mercato mondiale, con più di quattrocentomila dipendenti, per il ventesimo anno consecutivo il numero uno nel deposito di brevetti statunitensi (mentre in Europa è la tedesca Bosch, che però opera in settori a più basso contenuto tecnologico e meno strategici; seguita da Siemens) scoperte che consentiranno progressi in domini chiave tra cui l’analisi, il Big Data, la sicurezza informatica, il cloud, le telecomunicazioni, i software, aprendo l’era informatica dei sistemi cognitivi.
Il gigantismo USA, tanto criticato dai romanticoni della vecchia Italia a cui piace tanto il “piccolo è bello”, è in verità la vera arma che consente a questi colossi di investire ogni anno miliardi di dollari in R&S e di battere e dominare i rivali disponendo di immensi laboratori all’avanguardia e pagando profumatamente il fiore degli scienziati e dei tecnici a livello mondiale.
Ma poi ci sono altri giganti IT a stelle e strisce come HP, Intel, Amd, Dell, Oracle, Qualcomm, Cisco, etc. La lista potrebbe continuare ancora e in questo settore neanche i russi riescono a tenervi testa.
In Europa non esiste un concorrente che possa tenere il passo con la più piccola di queste aziende, forse in Germania solo la SAP è di una stazza tala da poter competere con le ultime in classifica, anche se ha sviluppato un know-how molto specifico su determinati software; in Italia, dopo la distruzione dell’Olivetti negli anni’60-70, non esistono industrie nell’IT degne di essere citate in questo contesto, neanche l’italo-francese STMicroelectronics può esserlo. Il gap con gli USA è troppo grande.
Gli Stati Uniti sono dei monstre anche nel settore strategico dell’energia, con alcune delle vecchie “sorelle” come Exxon Mobil, Chevron, ConocoPhilips; poi ancora con le industrie del settore elettrico e nucleare (ricordiamo che gli USA hanno il maggior numero di centrali nucleari del mondo, più di cento) con General Electric, Westinghouse, General Atomics, Exelon, United States Enrichment Corporation.
In Europa ci sono grandi compagnie con una potenza simile a quelle statunitensi, pensiamo alla Siemens e E.ON tedesche o alla Total, EDF, Areva e Alstom francesi; anche in Italia sono rimaste due ultime grandi compagnie oltre a Finmeccanica, che operano in questi settori, che sono Eni ed Enel.
Gli USA sono poi fortissimi nel settore strategico delle telecomunicazioni con colossi come AT&T e Verizon. Anche in questo caso solo la tedesca Deutsche Telekom e la francese France Telecom hanno la stazza per tenere il passo. Non parliamo nemmeno a come si è ridotta la “nostra” Telecom, smidollata dalle privatizzazioni degli anni ’90 e azzoppata dal contesto politico italiano dell’ultimo ventennio.
In USA rimane fortissimo il settore (dual-use) delle biotecnologie, della chimica, della farmaceutica con colossi come Johnson & Johnson, Pfizer, Abbott Laboratories, Bristol Myers Squibb, Amgen, E I Du Pont de Nemours, Eli Lilly, Monsanto.
In questi settori in Europa tengono la Germania e la Svizzera, con Bayer, BASF, Novartis mentre in Italia è rimasto poco o niente di paragonabile dopo l’affossamento di Enimont d’inizio anni ’90.
In USA c’è poi il comparto alimentare, anch’esso strategico, con Kraft, la seconda azienda alimentare più grossa del mondo dopo la svizzera Nestlè. Gli Stati Uniti controllano poi quasi la metà delle esportazioni mondiali di grano e mais, sfruttando le vaste estensioni di terra disponibili e utilizzando una tecnologia agroalimentare avanzata che non si fa fermare dalle fobie ecologiste.
Tra i settori strategici, per ultimo, anche quello dei media, la nota industria di Hollywood, che non ha eguali al mondo, con colossi come Time Warner, Walt Disney, Viacom, News Corporation, etc. che dominano tutto lo spettro delle tecniche della comunicazione mass-mediale. In Europa non esiste niente di paragonabile.
Alla base di queste grandi industrie statunitensi c’è un sistema di educazione che – privato o pubblico che sia – continua a custodire l’eccellenza e a trasmettere il meglio del know how a livello mondiale, in ovvia sinergia con il governo e i colossi aziendali più sopra riportati, avendo le migliori infrastrutture, laboratori per la ricerca e corpo docente.
Stando al report Quacquarelli Symonds (QS) del 2013, nei settori tecnici e scientifici – dall’ingegneria all’elettronica, dalla fisica alla chimica, dalla medicina alla biologia – a dominare sono sempre un gruppo di università statunitensi come il Massachusetts Institute of Technology (MIT), la Stanford University, la Carnegie Mellon University, la University of California, la Berkeley (UCB) e la Harvard University.
La prima università italiana è quella bolognese, in 188° posizione…
Arriviamo così all’Italia e all’Europa. Quest’ultima, nel suo complesso, sarebbe il concorrente numero uno degli Stati Uniti d’America, i quali ne sono ben consapevoli (non c’era certo bisogno delle rivelazioni di Snowden per sapere che la UE è oggetto di una costante opera di spionaggio da parte degli “alleati” americani); ma per fare veramente paura a Washington, l’Europa dovrebbe divenire un blocco continentale politicamente autonomo e industrialmente ed economicamente coeso, non un’istituzione di cartapesta con una moneta senza capo né coda, un insieme posticcio di nazioni che la trasformano in un “pollaio nazionalistico” di cui la contesa sull’euro è solo uno dei molteplici e tragicomici aspetti.
L’industria dell’economia europea – anche quella high-tech – risulta per lo più frammentata tra le diverse e rivali capitali e gruppi. Così è difficile se non impossibile tenere il passo con i giganti statunitensi più sopra elencati; neanche la Germania da sola ha i numeri e la forza per tenervi testa; figuriamoci l’Italia.
Infatti, oltre ad un sistema educativo ormai al collasso – con poche eccellenze in mezzo a tanti palazzi antiquati e ammuffiti e con una bolla umanistica gonfiata sconsideratamente negli ultimi decenni – all’interno del perimetro nazionale italiano sono rimaste pochissime aziende di grandi dimensioni che operano nei settori high tech e strategici: praticamente solo ENI, ENEL, Finmeccanica, e molto più indietro Telecom e Fincantieri. Ma di certo queste sono piccola cosa se paragonate alle bestie USA. Soprattutto, senza una politica di “Big Science”, il loro destino è segnato, insieme a quello dell’economia nazionale italiana. Sessant’anni di subordinazione politica e geoeconomica agli Stati Uniti hanno ormai quasi definitivamente privato il nostro paese d’industrie attive nei settori high tech e ridotto la classe politica italiana ad un insieme di smidollati e pagliacci che in nome del deficit, dei parametri dell’euro e della “carta”, sono disposti a sacrificare il “ferro”, interi comparti industriali medi e soprattutto high-tech. Tutto il contrario di quello che fanno gli USA, come abbiamo visto, o di quello che fanno i francesi e i tedeschi.
Per invertire la rotta bisognerebbe dotarsi di un ceto dirigente sovranista ed europeista in senso forte che smascheri quello euroatlantico, annichilendo tanto le correnti culturali domestiche decrescetiste, tecnofobe, antiscientifiche, romantiche e primitiviste – vero cancro del paese che l’hanno infettato alle radici – tanto quanto quelle politiche piccolo-nazionali ed atlantiste .
Ma anche se, nella più ottimistica delle previsioni, ciò dovesse accadere, l’Italia da sola non avrebbe i numeri per fare una politica di sviluppo (e potenza) sostenibile; nell’era dei continenti e dei grandi spazi, l’Italia da sola non può fare “Big Science” e competere con quei giganti aziendali che stanno alla base del dominio USA. Nel XXI secolo ci vuole stazza continentale ed è pertanto necessaria una stretta alleanza con uno o più delle potenze nazionali vicine, siano queste la Francia, la Germania o la Russia. E’ indispensabile una scelta paneuropea dell’industria high-tech italiana, che passi attraverso la fusione dei diversi comparti nazionali europei, avendo la forza di contrattare un accorpamento che tuteli il più possibile gli interessi della nostra popolazione. Alla radice ci deve essere una condivisa scelta politica di creazione di un blocco continentale autonomo dagli USA.
I più brillanti esempi di “Big science” a livello europeo sono il CERN di Ginevra (l’Organizzazione Europea per la Ricerca Nucleare), l’ESA (l’Agenzia Spaziale Europea) ed EADS (la già più volte citata European Aeronautic Defence and Space Company); ma mentre nei primi due è stata ed è determinante la partecipazione italiana, nel terzo, per ragioni geoeconomiche dovute alle pressioni statunitense - e a calcoli piccolo-nazionali dei circoli italiani - l’Italia ne è rimasta estranea per mettere i bastoni tra le ruote alla costituzione di un nocciolo di una azienda europea della difesa.
In Europa la vera potenza, solo teorica perché ancora priva di una precisa volontà politica in tal senso, è la Germania. E lo è per tante ragioni ma in particolare per la presenza di aziende strategiche di grandi dimensioni come i già sopraccitati EADS, Siemens, BASF, Bayer, Deutsche Telekom, E.ON, SAP, Infineon, etc., che fanno sistema con il ceto politico nazionale e il sistema educativo (le migliore università europee, per QS, sono tedesche, se si eccettuano quelle inglesi). Insieme a queste industrie high-tech è fortissima l’industria media, con colossi automobilistici e metalmeccanici. Ma rispetto alla varietà e alla dimensione dei giganti statunitensi anche la Germania rimpicciolisce; soprattutto poi è la sua classe dirigente a non avere ancora le idee chiare su quale strada intraprendere. La Germania avrebbe i numeri per essere una potenza di riferimento nel blocco europeo ma è titubante e gli altri paesi europei sono impauriti e gelosi delle proprie prerogative nazionali, in particolare la Francia.
I gruppi dominati tedeschi non osano ancora prendere il toro per le corna dell’attuale subordinazione geopolitica e geoconomica europea agli Usa e del progetto di cartapesta dell’attuale Unione Europea, un gigante con i piedi d’argilla. E’ pertanto ancora tutto da vedere quanto i dirigenti tedeschi siano intenzionati a dare impulso a determinati settori high tech della propria economia nazionale arrivando a scontrarsi con quelli USA (in particolare nell’IT e nella difesa) e a spingere quindi per la nascita di colossi strategici paneuropei sotto la propria guida, oppure a cercare una forma di coesistenza pacifica e subordinata con gli USA attraverso una rinnovata forma di complementarietà tra le proprie economiche facendo al contempo tabula rasa dei rivali intraeuropei.
Nel pollaio nazionalistico europeo ogni nazione cerca di fare le scarpe all’altra dalla propria posizione di forza all’interno della costruzione dell’euro e dei suoi parametri, dei giochetti politici e finanziari a Bruxelles e Francoforte. I tedeschi, CDU e SPD indifferentemente, cavalcano il “rigore” perché si trovano in una posizione di forza.
Dietro la crisi della moneta unica, riprendendo quello che diceva Pansa, dietro ai giochi finanziari dello spread e delle altalene di borsa, si nasconde la battaglia per il ridisegno della geografia industriale europea e dei rapporti di forza tra le diverse nazioni, che pendono sempre più verso la Germania. Questo non è necessariamente un male se si ragiona in ottica continentale, com’è necessario fare per le ragioni sopraddette; l’unico modo infatti perché si possa superare il pollaio nazionalistico europeo in corso è che si crei un nucleo talmente forte all’interno della UE capace di attrarre, con le buone o con le cattive, tutte gli altri a sé, senza le estenuanti e inconcludenti contrattazioni che si verificano nella condizione di parità di forze. E il nucleo forte che si va formando è quello mitteleuropeo guidato dalla nazione tedesca.
Un’Italia guidata da un gruppo dirigente sovranista ed europeista forte, dovrebbe però chiedere alla Germania (e in subordine alla Francia) di giocare allo scoperto e mettere le carte sul tavolo per capire se vale veramente la pena di puntare ad un’aggregazione paneuropea attorno al nucleo tedesco, e magari poi aiutarla e fiancheggiarla in questo duro percorso che preveda la creazione di un reale blocco continentale, con una vera unificazione dotata di un esercito europeo, di un bilancio comune, di una “Big Science” comune, di una politica estera ed economica autonoma dagli USA.
Con l’inizio del nuovo mandato di Angela Merkel, con le contrattazione sul TAFTA che stanno per partire, con le decisioni del nuovo management di Siemesns e tanti altri segnali, si riuscirà a stanare meglio le reali intenzioni della Germania.
Ma è certo che ad aiutare o addirittura a pretendere dalla nazione tedesca non può essere la “puttana” atlantica che dall’8 settembre del ’43 – e ancora più negli ultimi vent’anni – siamo soliti chiamare Italia, cavallo di troia statunitense nell’Unione Europea tanto quanto la Gran Bretagna.
Oggi infatti il compito dell’Italia di Re Giorgio - portavoce di Obama – e di Mario Draghi – portavoce della finanza anglosassone - è quello di marcare stretto la Germania e di mantenerla nel percorso di un’architettura istituzionale europea inconcludente e totalmente permeata dalle intromissione atlantiche, e di farne da contrappeso in seno a questa stessa Unione per mantenerla costantemente paralizzata.
Rebus sic stantibus, i tedeschi e gli altri europei avrebbero tutte le ragioni per saccheggiare una nave alla deriva - piena di traditori ed opportunisti, bordello della CIA - come l’Italia; anzi, per gli italiani potrebbe anche essere un fatto positivo perché capace di scombussolare gli asseti di potere dei circoli atlantici di Roma e Milano. Una nuova discesa in Italia dei lanzichenecchi per fare quella pulizia che gli italiani non paiono in grado di fare da soli.
L’eventuale ingresso dei francesi e altri europei, e ancor più dei tedeschi, in alcune industrie high tech italiane (direttamente o attraverso l’acquisizione di determinati asset bancari ed assicurativi) potrebbe essere visto con sospetto dalle parti di Washington e come un’intromissione nella propria area di pertinenza.
Un ulteriore rafforzamento del sistema industriale tedesco infatti, con l’inglobamento di quello italiano, creerebbe poi un mostre europeo e uno squilibrio della bilancia interno all’Unione pericoloso per chi teme, come gli USA, un’accelerazione nella costituzione di un reale blocco europeo attorno ad un nucleo duro, la premessa indispensabile – come abbiamo già detto - per superare le altrimenti infinite ed inconcludenti contrattazioni dei ministri della UE su come far procedere la costruzione europea.
E’ per questo che sarà molto improbabile che, preannunciata dal tour “Destinazione Italia” di Enrico Letta, certe aziende strategiche italiane finiscano in mano - o anche solo vedano un aumento dell’azionariato – di gruppi tedeschi, ma è molto più probabile che finiscano per trovare capitali e acquirenti anglosassoni o di qualche paese satellite asiatico e mediorientale (Qatar, Sud-Corea, Giappone, etc). Dopotutto Letta va a New York e a Doha, non a Francoforte.
Se capitali ed acquirenti dotati di “nulla osta di sicurezza” non si trovano, si farà di tutto sia per garantire l’italianità di certe industrie high-tech - già sotto il stretto controllo dell’apparato atlantico – piuttosto che correre il rischio di farle cadere nelle mani sbagliate (siano queste tedesche, russe, cinesi o fors’anche spagnole) sia di indebolire ed inibire altre aziende strategiche guidate da management meno controllabili e più propensi ad instaurare pericolose relazioni industriali con paesi estranei all’orbita all’occidentale; la nomina di De Gennaro (uomo USA) a capo di Finmeccanica è esemplificativa della necessità di tenere sotto stretto controllo le grande azienda italiana del settore dell’aerospazio in un momento molto delicato della contesa mondiale.
Dal discorso pronunciato da Pansa all’inizio dell’ottobre del 2012 è passato quasi un anno e la resa dei conti si avvicina sempre di più, come ha dimostrato il recente caso Telecom.
Tra poco sarà il turno di Ansaldo Energia, mentre all’orizzonte gli ultimi grandi incroci della lotta sono ENI, Enel e la stessa Finmeccanica. Se vogliamo che nei cieli della nostra terra risplenda un barlume di dignità e di patriottismo europeo; se vogliamo che tra le sue valli rimbombi di nuovo dieci e cento volte “Eureka” - la gioia della scoperta e l’orgoglio del progresso tecnico e scientifico oggi possibile solo con la “Big Science” e con la stazza continentale - facciamo i conti, hic et nuc, con l’occupante a stelle e strisce e liberiamoci da una classe dirigente che sembra saper dire solo: “Yes, Sir”.
Michele Franceschelli
Note:
1. Nomisma
2. Le difficoltà del caso specifico del programma F-35 non inficia il giudizio complessivo sulla potenza del complesso militare-industriale USA
Articolo originariamente pubblicato sul giornale on-line 'Stato e Potenza'
1. Nomisma
2. Le difficoltà del caso specifico del programma F-35 non inficia il giudizio complessivo sulla potenza del complesso militare-industriale USA
Articolo originariamente pubblicato sul giornale on-line 'Stato e Potenza'