I sindacati italiani dei lavoratori si fanno sovente assorbire nelle dispute dei partiti, diventando ormai una componente imprescindibile del teatrino parlamentare romano che contraddistingue l’odierna “Italian Republic”, dov’è fondamentalmente il partito anglo-statunitense ad essere rappresentato, pur nelle sue diverse correnti di “destra” e di “sinistra”. La maggior parte delle forze dei sindacati vengono spese in questo teatrino dove l’unica finalità è in realtà la difesa dell’assetto di potere del quale fanno parte in combutta con il proprio partito atlantico di riferimento, rispondendo in primis alla loro agenda politica piuttosto che all’agenda dei lavoratori, le cui rivendicazioni vengono barattate o sterilizzate; fa parte del gioco mettere ogni tanto in scena grandi rappresentazioni teatrali di lotta di piazza per preservare l’immagine di un’organizzazione dedita alla difesa del lavoro, anche se si concentra l’attenzione su aspetti del tutto marginali e mediatici e dai risultati molto spesso effimeri per i lavoratori.
Il problema non sta nel fatto che i sindacati italiani abbiano un rapporto con una forza politica; il nodo centrale è vedere a quale forza politica si decide di ancorare la lotta sindacale. In astratto è infatti giusto che le organizzazioni dei lavoratori integrino la loro lotta sindacale in una battaglia politica, perché altrimenti la loro azione si riduce a puro e semplice “tradeunionismo” – per l’aumento del salario, per la sicurezza del posto di lavoro, per le ore di lavoro giornaliere, etc.- una visione esclusivamente economicista che, per quanto sacrosanta e legittima, finisce per ignorare la dimensione del combattimento, ben più efficace e profonda, che si gioca sul piano della politica e che, alla lunga, ha le maggiori ricadute proprio sul lavoro. Il “tradeunionismo” è sovente miope, dai risultanti momentanei e facilmente strumentalizzabile dalle forze politiche che si muovono su ben altri e decisivi livelli e con ben altri strumenti a disposizione.
Oggi in Italia i sindacati vanno a rimorchio dei partiti parlamentari italiani i quali, nell’attuale congiuntura storica, sono l’espressione degli interessi della grande finanza bancaria e dell’industria parassitaria italiana (“GFID”, Grande Finanza ed Industria Decotta, per usare l’acronimo inventato da Gianfranco La Grassa), fortemente legati ai centri economici di Washington e Londra, e pertanto i sindacati sono vincolati ad una logica quasi esclusivamente economicista, ripiegata su sé stessa; quando – raramente – cercano di allargare il loro orizzonte, sono assoggettati alle parole d’ordine e gli schemi dei partiti italiani atlantizzati a cui sono subordinati.
I sindacati italiani sono costretti a muoversi in questo modo puramente economicista: ampliare l’orizzonte della lotta sindacale fornendo ai lavoratori strumenti per la comprensione della politica mondiale, dei rapporti internazionali, della geoeconomia e le loro ripercussioni sul tessuto produttivo ed industriale italiano, sui livelli occupazionali, sulla tipologia e la qualità del lavoro e le stesse garanzie contrattuali e sociali, svelerebbe automaticamente la reale funzione distruttrice del sistema industriale e dello Stato sociale svolta da quegli stessi partiti atlantici da cui i sindacati dipendono strutturalmente. E’ perciò vitale per i sindacati non fare comprendere ai lavoratori come la sudditanza italiana ai centri politico-militari e finanziari di Washington e Londra, in un contesto continentale ancora caotico e condizionato da quegli stessi centri, sia la principale causa del progressivo disfacimento socio-industriale del paese e del predominio del liberismo politico ed economico, con tutte le conseguenze devastanti sul piano sociale che vediamo attualmente in fase di dispiegamento avanzato; spiegare ciò equivarrebbe ad un suicidio per chi è alle dirette dipendenze di una ceto politico subordinato agli anglostatunitensi. All’Italia viene imposto un riassetto economico in cui rimarranno solo pochi settori industriali a bassa tecnologia con esigenze di manodopera poco qualificata, precaria e a basso costo, con abbondante impiego di manovalanza immigrata per abbassare ulteriormente i salari, un futuro in cui il PIL italiano sarà fatto di turismo, servizi finanziari, badanti ed artisti. I sindacati non potranno legare la lotta sindacale alla lotta contro la partecipazione dell’Italia alla NATO, perchè anche qui, se lo facessero, andrebbero ad urtare i reali padroni dei loro padroni, perché farebbero comprendere ai lavorativi come l’impossibilità dell’Italia di smarcarsi dalle linee strategiche della NATO, come chiusa in una camicia di forza, non le consentano di attuare solide politiche di cooperazione economica coi paesi BRICS, una collaborazione che rappresenta la leva fondamentale per la crescita e lo sviluppo, date le enormi potenzialità di quei paesi. E quale futuro del lavoro ci potrà mai essere per un paese a cui è impedito di stringere rapporti politico-economici duraturi con le nazioni dei BRICS e la cui scelta politica è di andare ad elemosinare denaro dagli usurai della City e di Wall Strett, promettendogli in cambio di svendergli il residuo patrimonio industriale del paese?
I sindacati italiani si trovano pertanto nel vicolo cieco del “tradeunionismo” e quando cercano di andare oltre, fanno da rincalzo all’atlantismo, ma così facendo tradiscono la loro missione costitutiva: oggi infatti, la difesa del lavoro italiano – del Lavoro con la “l” maiuscola, quello produttivo ed agricolo, quello che realizza beni, nuove invenzioni e tecniche d’avanguardia, che si basa sul rigore della ricerca scientifica e la dura qualificazione professionale, che crea sviluppo ed avanzamento sociale al passo con il progresso della tecnoscienza, che fa esportazioni e ha alto valore aggiunto – passa attraverso un ri-orientamento politico e quindi economico dell’Italia in senso sovranista ed euroasiatista[1], in particolare, tra i paesi BRICS, verso Russia e Cina.
Questo è l’orientamento politico che, qual’ora ci fossero ancora delle forze vitali all’interno del sindacalismo italiano, non sclerotizzate dal mito della classe operaia e dall’economicismo, non depotenziate dall’ideologia dei diritti dell’uomo e dall’occidentalismo, dovrebbero fare proprio, facendo in modo che connoti sempre di più le loro lotte – integrandole in questo obiettivo politico – se vogliono dare una prospettiva di vita al Lavoro, nei prossimi anni, all’Italia.
Michele Franceschelli
Articolo originariamente pubblicato sul giornale on-line 'Stato e Potenza'
Il problema non sta nel fatto che i sindacati italiani abbiano un rapporto con una forza politica; il nodo centrale è vedere a quale forza politica si decide di ancorare la lotta sindacale. In astratto è infatti giusto che le organizzazioni dei lavoratori integrino la loro lotta sindacale in una battaglia politica, perché altrimenti la loro azione si riduce a puro e semplice “tradeunionismo” – per l’aumento del salario, per la sicurezza del posto di lavoro, per le ore di lavoro giornaliere, etc.- una visione esclusivamente economicista che, per quanto sacrosanta e legittima, finisce per ignorare la dimensione del combattimento, ben più efficace e profonda, che si gioca sul piano della politica e che, alla lunga, ha le maggiori ricadute proprio sul lavoro. Il “tradeunionismo” è sovente miope, dai risultanti momentanei e facilmente strumentalizzabile dalle forze politiche che si muovono su ben altri e decisivi livelli e con ben altri strumenti a disposizione.
Oggi in Italia i sindacati vanno a rimorchio dei partiti parlamentari italiani i quali, nell’attuale congiuntura storica, sono l’espressione degli interessi della grande finanza bancaria e dell’industria parassitaria italiana (“GFID”, Grande Finanza ed Industria Decotta, per usare l’acronimo inventato da Gianfranco La Grassa), fortemente legati ai centri economici di Washington e Londra, e pertanto i sindacati sono vincolati ad una logica quasi esclusivamente economicista, ripiegata su sé stessa; quando – raramente – cercano di allargare il loro orizzonte, sono assoggettati alle parole d’ordine e gli schemi dei partiti italiani atlantizzati a cui sono subordinati.
I sindacati italiani sono costretti a muoversi in questo modo puramente economicista: ampliare l’orizzonte della lotta sindacale fornendo ai lavoratori strumenti per la comprensione della politica mondiale, dei rapporti internazionali, della geoeconomia e le loro ripercussioni sul tessuto produttivo ed industriale italiano, sui livelli occupazionali, sulla tipologia e la qualità del lavoro e le stesse garanzie contrattuali e sociali, svelerebbe automaticamente la reale funzione distruttrice del sistema industriale e dello Stato sociale svolta da quegli stessi partiti atlantici da cui i sindacati dipendono strutturalmente. E’ perciò vitale per i sindacati non fare comprendere ai lavoratori come la sudditanza italiana ai centri politico-militari e finanziari di Washington e Londra, in un contesto continentale ancora caotico e condizionato da quegli stessi centri, sia la principale causa del progressivo disfacimento socio-industriale del paese e del predominio del liberismo politico ed economico, con tutte le conseguenze devastanti sul piano sociale che vediamo attualmente in fase di dispiegamento avanzato; spiegare ciò equivarrebbe ad un suicidio per chi è alle dirette dipendenze di una ceto politico subordinato agli anglostatunitensi. All’Italia viene imposto un riassetto economico in cui rimarranno solo pochi settori industriali a bassa tecnologia con esigenze di manodopera poco qualificata, precaria e a basso costo, con abbondante impiego di manovalanza immigrata per abbassare ulteriormente i salari, un futuro in cui il PIL italiano sarà fatto di turismo, servizi finanziari, badanti ed artisti. I sindacati non potranno legare la lotta sindacale alla lotta contro la partecipazione dell’Italia alla NATO, perchè anche qui, se lo facessero, andrebbero ad urtare i reali padroni dei loro padroni, perché farebbero comprendere ai lavorativi come l’impossibilità dell’Italia di smarcarsi dalle linee strategiche della NATO, come chiusa in una camicia di forza, non le consentano di attuare solide politiche di cooperazione economica coi paesi BRICS, una collaborazione che rappresenta la leva fondamentale per la crescita e lo sviluppo, date le enormi potenzialità di quei paesi. E quale futuro del lavoro ci potrà mai essere per un paese a cui è impedito di stringere rapporti politico-economici duraturi con le nazioni dei BRICS e la cui scelta politica è di andare ad elemosinare denaro dagli usurai della City e di Wall Strett, promettendogli in cambio di svendergli il residuo patrimonio industriale del paese?
I sindacati italiani si trovano pertanto nel vicolo cieco del “tradeunionismo” e quando cercano di andare oltre, fanno da rincalzo all’atlantismo, ma così facendo tradiscono la loro missione costitutiva: oggi infatti, la difesa del lavoro italiano – del Lavoro con la “l” maiuscola, quello produttivo ed agricolo, quello che realizza beni, nuove invenzioni e tecniche d’avanguardia, che si basa sul rigore della ricerca scientifica e la dura qualificazione professionale, che crea sviluppo ed avanzamento sociale al passo con il progresso della tecnoscienza, che fa esportazioni e ha alto valore aggiunto – passa attraverso un ri-orientamento politico e quindi economico dell’Italia in senso sovranista ed euroasiatista[1], in particolare, tra i paesi BRICS, verso Russia e Cina.
Questo è l’orientamento politico che, qual’ora ci fossero ancora delle forze vitali all’interno del sindacalismo italiano, non sclerotizzate dal mito della classe operaia e dall’economicismo, non depotenziate dall’ideologia dei diritti dell’uomo e dall’occidentalismo, dovrebbero fare proprio, facendo in modo che connoti sempre di più le loro lotte – integrandole in questo obiettivo politico – se vogliono dare una prospettiva di vita al Lavoro, nei prossimi anni, all’Italia.
Michele Franceschelli
Articolo originariamente pubblicato sul giornale on-line 'Stato e Potenza'