sabato 14 aprile 2012

L’Italia al palo nell’era della “Big Science”





Io vorrei portare questo particolarmente all’attenzione dei giovani, intellettuali o scienziati: di regola, i Paesi espropriati della sovranità nazionale vengono privati del diritto al lavoro creativo, e specialmente al lavoro creativo in campo scientifico. Sono i centri di potere e le grandi potenze che finanziano il lavoro scientifico, controllano i suoi risultati e decidono della loro applicazione. Negli Stati dipendenti, i laboratori di ricerca e gli istituti scientifici non sono indipendenti ma operano in qualità di branche controllate da un centro. Le loro realizzazioni devono restare entro certi limiti, per non rischiare che esse introducano nei Paesi e nei popoli occupati un seme di ribellione o di emancipazione” (Slobodan Milosevic) (1)
Io proprio vorrei che gli uomini responsabili della cultura e dell’insegnamento ricordassero che noi italiani dobbiamo toglierci di dosso questo complesso d’inferiorità che ci avevano insegnato: gli italiani sono bravi letterati, bravi poeti, bravi cantanti, bravi suonatori di chitarra, brava gente, ma non hanno la capacità della grande organizzazione industriale. Tutto ciò è falso e noi ne siamo un esempio […] abbiamo creato scuole aziendali per ingegneri, per specialisti, per operai, per tutti e dappertutto con sforzo continuo […]” (Enrico Mattei) (2)



Il termine “Big Science” (“Grande Scienza” in italiano) (3) identifica un sistema della produzione tecnico-scientifico affermatosi più di 60 anni fa durante i tumulti della seconda guerra mondiale; eppure questo fenomeno non è ancora molto conosciuto e compreso in Italia, anche se le sue realizzazioni più “fantascientifiche” hanno conquistato un posto di primo piano nell’immaginario collettivo italiano e mondiale, come nel caso del CERN di Ginevra.
“Big Science” è un termine che gode di poca familiarità nell’ambito politico italiano, anche se rimanda ad un sistema le cui realizzazioni sono strettamente correlate all’evoluzione di settori strategici fondamentali per la sicurezza nazionale, mentre il sostegno del governo rappresenta il supporto indispensabile senza il quale quei progetti non troverebbero concretizzazione; anche nel mondo imprenditoriale sembra essere poco conosciuto, pur essendo le sue scoperte scientifiche e tecniche fondamentali motori dello sviluppo e della crescita economica. Potremmo continuare ancora toccando la scarsa consapevolezza di questo fenomeno che si riscontra nei sindacati dei lavoratori, negli intellettuali e nel mondo giornalistico italiano. Solo il ristretto mondo degli scienziati, ma non sempre, è consapevole di cosa rappresenta davvero la “Big Science” e dell’importanza che è andata acquisendo nel mondo contemporaneo; forse in ambito militare c’è più coscienza, essendo la “Big Science”, strettamente legata alla “potenza” di una nazione.
Non deve però sorprendere il fatto che in Italia ci sia poca comprensione di cosa sia la “Big Science” – di quali siano i suoi presupposti politici e le sue ricadute economiche, dell’importanza che detiene nel far progredire l’organizzazione sociale e nell’elevare la formazione culturale della popolazione, della sua rilevanza per lo sviluppo dei settori strategici – dato il ruolo di “semicolonia” che contraddistingue il nostro paese dalla fine della seconda guerra mondiale, in particolare nei confronti degli Stati Uniti d’America.
Ma quando è nata la “Big Science” e che cosa è?
L’origine della “Big Science” è da rintracciare negli anni immediatamente precedenti e durante la seconda guerra mondiale. In quel periodo infatti, in particolare negli Stati Uniti ed in Germania – i paesi più progrediti tra le nazioni dell’epoca dal punto di vista scientifico e tecnico ed i più consapevoli dell’importanza che le scoperte avrebbero giocato nella determinazione delle sorti del conflitto – le esigenze di guerra imposero in modo sempre più pressante ai diversi Stati coinvolti di intervenire massicciamente per sostenere la ricerca ed indirizzarla secondo le proprie esigenze belliche; la seconda guerra mondiale viene anche denominata, a tale proposito, la “guerra dei fisici”. I casi più esemplificativi erano i centri di ricerca in Germania, a Peenemünde, e negli Stati Uniti, a Los Alamos, dove enormi progetti sostenuti dai rispettivi governi miravano a scoprire e costruire nuovi armi in grado di incidere sull’esito del conflitto. In entrambi i progetti si ritrovavano grandi investimenti governativi, un grande numero di tecnici e scienziati di discipline diverse per la prima volta riuniti gerarchicamente sotto un un’unica direzione (a Los Alamos furono circa 130.000), grandi macchine e laboratori mai visti prima.
Ma mentre il primo progetto fu ripetutamente colpito dai sabotaggi alleati e dalla progressiva incapacità della Germania di sostenerlo parallelamente al deteriorarsi delle sue posizioni in guerra, il secondo, grazie alla tranquillità garantita dalla pozione “insulare” statunitense e dal progressivo miglioramento delle sorti del conflitto mondiale per gli Stati Uniti, poté dispiegarsi senza distruzioni militari ed interruzioni dei flussi delle risorse, fino al raggiungimento finale dei suoi scopi, la produzione della prima bomba atomica; è pertanto al “Progetto Manhattan” di Los Alamos (4) a cui si fa riferimento quando si vuole indicare la prima realizzazione sensazionale della “Big Science”.
Una volta terminato il secondo conflitto mondiale, la classe politica statunitense rifiutò l’idea di abbandonare il sistema della mobilitazione della “Big Science” e bocciò l’ipotesi di tornare al sistema precedente la guerra, rimpianto da alcuni scienziati romantici ed idealisti e definito, in contrapposizione al primo, come “Small Science” (quella fatta su piccola scala, da individui o piccole equipe) (5); il governo americano anzi intensificò la sua azione sui progetti ancora esistenti e la estese ai nuovi settori d’avanguardia ed high-tech facendo quindi della “Big Science” un paradigma della propria strategia di potenza.
All’interno di questo quadro è da leggere l’operazione “Paperclip”, con cui gli Stati Uniti d’America si assicurarono i maggiori scienziati della Germania post-nazista inquadrandoli all’interno dei nuovi progetti di “Big Science” del dopoguerra, non diversamente da quanto avvenne per il “Progetto Manhattan” .
Nel ceto dirigente americano c’era la consapevolezza che il conflitto con l’Unione Sovietica era già cominciato ancor prima che finisse la guerra; per mantenere la supremazia nei settori strategici fondamentali per la sicurezza nazionale e per il mantenimento della leadership acquisita con la vittoria nel secondo conflitto mondiale, gli Stati Uniti dovevano inevitabilmente non solo perseverare in quell’efficace sistema di produzione tecnica e scientifica che avevano inaugurato a Los Alamos, ma anche ampliarne i campi di intervento: i nuovi settori di sviluppo erano quelli dello spazio, dell’elettronica, della telematica, dell’informatica, dell’energia.
Non è pertanto un caso che il termine “Big Science” sia stato coniato intorno agli anni ’60 da un professore americano, tale Alvin M. Weinberg (6), per descrivere un sistema in pieno dispiegamento negli Stati Uniti d’America negli anni ’50 e ’60, più che in qualsiasi altra parte del mondo. La “Big Science” era l’intreccio tra il governo americano e le università più prestigiose degli Stati Uniti (come il Massachusetts Institute of Technology, la Stanford University e la University of California) tra gli enormi fondi pubblici e le imprese private, tra le strutture militari e i centri di ricerca, tra i politici e gli scienziati, tra le agenzie di intelligence e i giovani dottorandi, dando vita a progetti miliardari nella ricerca di nuove tecniche e scoperte scientifiche, con enormi ricadute in campo militare e nella vita economica (hard power) e per il prestigio internazionale statunitense (soft power).
Questo sistema “interno” della “Big Science”, si muoveva parallelamente all’azione “esterna”, coordinata dalle agenzie di intelligence, volta all’indebolimento e alla distruzione, con le buone o con le cattive, dei tentativi delle nazioni competitrici che tentavano di sviluppare in autonomia i propri settori strategici, veicolo della sovranità politica.
Questo sistema di “Big Science” ha come prerequisito, nel caso degli Stati Uniti, la ferma volontà politica della classe dirigente americana di mantenere la leadership mondiale e la superiorità economica, militare, scientifica e tecnologica e, per le altre nazioni inseguitrici, presuppone la ferrea volontà delle rispettivi classi dirigenti di avviare un percorso di sviluppo economico e sovranità/potenza politica; essendo ormai dimostrato come il metodo della “Big Science” sia la modalità operativa più efficace per ottenere la potenza militare, quella economica, lo sviluppo e la crescita. E’ un sistema che si è infatti empiricamente rivelato fruttuoso dato che ancor oggi, dopo 60 anni, pur con l’inevitabile presentarsi sull’arena mondiale di nuovi competitori dopo il collasso dell’Unione Sovietica, gli Stati Uniti mantengono una posizione di leadership politico-militare e sono costantemente all’avanguardia nei settori di punta e high-tech e primi nella produzione scientifica mondiale. Le de-localizzazioni degli anni ’80 e ’90 non hanno di certo riguardato i settori di alta tecnologia ed il liberismo repubblicano non ha mai messo in discussione i pilastri della “Big Science”. Pur avendo oggi un altissimo debito pubblico (15.000 miliardi di dollari pari a più del 100% del PIL), il governo americano, democratico o repubblicano che sia, continua infatti a fare investimenti di centinaia di miliardi di dollari all’anno nei settori della difesa, dello spazio, dell’energia, delle telecomunicazioni, dell’elettronica, delle nanotecnologie, della robotica e delle biotecnologie, sostenendo la R&S in centinaia di imprese. Le grandi industrie americane che operano nei settori strategici e che sulla carta si presentano come private, sono per lo più tutte indirettamente sostenute dal governo americano; la maggior parte delle tanto decantate “startup” statunitensi – come quelle mitizzate della Silicon Valley (7) – nascono come gemmazione esterna dei grandi progetti governativi/universitari a sfondo militare; una volta conquistato il monopolio sul mercato, l’aiuto statale può progressivamente venire meno e diventare marginale anche se non terminano di certo i rapporti di mutua collaborazione.
La crisi del debito che oggi attanaglia anche gli Stati Uniti d’America non mette pertanto in discussione, per futili motivi di ragioneria e rigore finanziario, il sistema della “Big Science”- può al massimo solo imporre una maggiore attenzione alla ripartizione dei fondi ai diversi progetti senza intaccare le fondamenta del sistema – proprio perché la “Big Science” è riconosciuta come l’unica vera leva della potenza e della supremazia della nazione, e la potenza non si sacrifica per il pareggio di bilancio; i dirigenti statunitensi continuano ad essere in primis “politici” che si fanno le ossa dai “realisti” del Council on Foreign Relations, non come i “nostri” “tecnici” allevati alla Bocconi, la succursale di Harvard, vere e proprio scuole di indottrinamento ideologico.
Questa lezione sull’importanza della “Big Science” non è stata fatta propria dall’ Italia, ma non c’è nulla di cui sorprendersi: nello stato di “semicolonia” in cui ci siamo ritrovati fin dalla fine della seconda guerra mondiale, non è stato possibile realizzare un sistema politico-sociale imperniato sui binari della “Big Science”, a causa della mancanza di volontà politica da parte di una classe dirigente subordinata a Washington. In tutto il dopoguerra, la nascita di industrie di Stato attive nei settori strategici e di punta non solo non è mai stata incoraggiata dal governo italiano, se non apertamente ostacolata e soffocata, – vedi le vicende di Enrico Mattei (energia), Felice Ippolito (nucleare) e Domenico Marotta (chimica)- ma anzi si è cercato di spegnere i tentativi autonomi di sviluppo nei settori high tech da parte dell’imprenditoria privata: rimane esemplare a tal proposito la storia di Adriano Olivetti e della sua omonima industria elettronica.
I numerosi casi di eccellenza e di “Small Science” presenti in Italia, hanno finito quasi tutti per trovare un loro collocamento pratico negli Stati Uniti (portandosi dietro i brevetti, le invenzioni e le scoperte), naturalmente calamitati verso il centro dell’impero dall’azione egemonica del “brain drain” (un’operazione “Paperclip” zuccherata).
Le partecipazioni statali dell’IRI anche se si limitavano per lo più ad industrie attive nei settori intermedi e raramente di alta tecnologia, avevano permesso all’Italia di diventare alla fine degli anni ’80 la settima potenza mondiale e avevano contribuito anche a dar vita ad alcune eccellenze nei campi high-tech, come in quello delle telecomunicazioni, basti pensare alla SIP della metà degli anni ’80- inizio ‘90. Quelle partecipate dall’IRI erano imprese di grandi dimensioni, capaci di sostenere i mercati mondiali; quelle partecipazioni statali erano lo strumento indispensabile per investimenti di lungo periodo in R&S, in settori che per loro natura avevano bisogno di progettualità d’investimento a lungo termine e che si trovavano a competere con giganti stranieri a loro volta sostenuti dai rispettivi governi.
Purtroppo sappiamo cosa hanno combinato i “tecnici” degli anni ’90, infervorati dai dettami del “Washington Consensus”, i cui dogmi erano proprio gli Stati Uniti a non rispettare in casa propria, come abbiamo visto precedentemente, perchè la “Big Science” è tutto tranne che liberismo economico. In verità si è trattato, con le privatizzazioni degli anni ’90, di una svendita a basso prezzo di gioielli aziendali costruiti da decenni di lavoro italiano il cui risultato pratico è stata la distruzione di interi comparti industriali.
Dopo la parentesi berlusconiana, i tecnici di scuola “anglosassone” all’opera con il governo Monti, con la loro visione economicista e liberista della politica, sono la più grande disgrazia che potesse toccare all’Italia: sanno tutto di “spread” e di “deficit”, ma non hanno mai sentito parlare di cosa sia la “Big Science”, di settori strategici e ad alta tecnologia, delle interconnessioni dello sviluppo economico con la potenza militare e la sovranità politica, di terza e quarta rivoluzione industriale; o forse lo sanno e stanno semplicemente mentendo ed agendo per conto terzi per dare il “colpo del ko” all’Italia.
La loro politica da tecnici e da ragionieri, ha una visuale a breve se non brevissimo termine che costa carissimo alla nazione, e si colloca agli antipodi rispetto ad una politica saldamente incentrata sulla “Big Science”.
Il risultato pratico del “governo dei tecnici” – il cui nome “tecnico” è un insulto per le migliaia di veri tecnici ed operai che a causa delle politiche di questo governo, stanno perdendo il posto di lavoro – oltre a quello di impoverire moltissimi strati della popolazione italiana, sarà quello di affossare o di rendere “innocue” le ultime grandi aziende a partecipazione pubblica come ENI, ENEL e FINMECCANICA, le uniche su cui si potrebbe costruire, in sinergia con le migliori forze del mondo universitario e dell’esercito, una politica di “Big Science”, una politica “di ribellione ed emancipazione”.
Non sorprende che per il “governo dei tecnici” di Monti uno dei motori dello sviluppo economico per il futuro dell’Italia sia rappresentato dal turismo, addirittura definito “strategico” (8), con previsioni secondo le quali verrà ad occupare circa il 20% del PIL nei prossimi 10 anni! E’ questo lo scenario di una nazione che si trasforma in bordello turistico priva di grandi industrie e capacità tecnico-scientifiche.
Se così continuano a andare le cose, nei prossimi anni non solo non avremo mai la “Big”, ma neanche la “Small Science”; saremo un paese socialmente e culturalmente arretrato, una nazione al completo servizio della potenza egemone a stelle e strisce, soffocati dal peggiore americanismo d’asporto ed ostaggio delle sempre riemergenti superstizioni antiscientifiche.
Un futuro medievale.
Un futuro da “bravi letterati, bravi poeti, bravi cantanti, bravi suonatori di chitarra, brava gente”… e bravi soldatini dello Zio Sam.
Michele Franceschelli

Articolo originariamente pubblicato sul giornale on-line 'Stato e Potenza'